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15 - L'ultima cena

 

a mia madre

 

Il suono della sveglia che echeggia tra le fredde mura della casa. Rumori attutiti provenienti dalla strada. Una colazione frettolosamente consumata con il pensiero rivolto altrove, poi via in automobile diretti verso l’ospedale per la visita specialistica.

La giornata grigia sottolinea i nostri pensieri. Il solito miraggio di un parcheggio libero, perdonabile esigenza del vivere quotidiano. File interminabili di veicoli disseminati lungo gli esigui spazi della carreggiata, proprietari assorbiti e risucchiati dalle pulsanti attività della città.

Due brevi rampe di scale, poi l’ambulatorio. Dure panche metalliche, smaltate di un bianco ormai opacizzato, ci accolgono in un corridoio malamente illuminato. Visi scarni, pallidi, una fila di persone in lotta contro il tempo.

Il medico che si scusa per il ritardo dovuto alle condizioni meteorologiche, il treno proveniente da Genova, causa nebbia, ha avuto due ore di ritardo.

Il Natale che incalza alle porte, buffa ironia del vivere quotidiano, la vita e la morte, due poli di una bilancia in perenne equilibrio instabile.

Parole che sfuggono dalle nostre labbra sotto l’incurante presenza del personale ospedaliero immerso nei tediosi percorsi quotidiani.

Camici bianchi che ondeggiano come lontani fantasmi nei corridoi fiochi dell’ospedale. Infine la visita; una ricetta chemioterapica che rimarrà inutilizzata, sepolta in un cassetto, tra carte e istantanee della tua immagine.

Allora non sapevo ancora che presto, molto presto, troppo presto, tu te ne saresti andata con il tuo stanco sorriso affievolito sulle labbra.

Tu, con il coraggio che ha contraddistinto la tua vita di donna e di madre; tua la scelta di voler passeggiare per i negozi della città in cerca dei regali, un pensiero cordiale per i presenti, sempre pronta e attenta a chi ti è vicino.

Il flebile suono dei tuoi passi sul selciato, camminando a denti stretti per non lasciare trasparire i segni del dolore che stringe e ti morde dentro, attimo dopo attimo, attenta a non pronunciare mai la terribile parola domani...

Il pranzo, la nostra ultima cena, in un locale scelto a caso tra le vie del quartiere che stiamo attraversando. Le pareti ricche di dipinti, luci morbide, tonalità pastellate e un paio di coppie, sedute ai tavoli vicini, immerse nel loro presente. Una ordinazione, una prima portata inutile, un tenue approccio di un secondo piatto subito accantonato. Timidi tentativi di un corpo scheletrico sorretto solamente dalla volontà di vivere.

Non abbiamo parlato di ricordi, non volevi avere dei rimpianti, perché la vita continuava a rotolare nella sua corsa, giorno dopo giorno, con la sua folle casualità. Impossibile arrestarla.

Tra il rumore delle stoviglie e la musica di sottofondo, il tuo pallido viso sorride, coraggioso e sereno, animato da una strana luce.

Triste il ritorno a casa sotto un tempo inclemente, una cappa grigia che ricopre la città quasi a voler preannunciare la prossima nevicata.

Nella tua camera, il letto, accoglie pietosamente il tuo corpo affranto. Fuori, il sole, schermato dalla grigia bruma si spegne dietro la curva dell’orizzonte... poi lentamente esplode il mistero dell’universo stellato.

Là nella notte fonda, confusa nella diafana luminosità del cielo, brilla intensa una nuova stella.

 

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