Il Cuore | Prosa e racconti | Andrea Occhi | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Il Cuore

Assumo un atteggiamento scettico nell’ascoltare racconti di eventi l’origine dell’accadimento dei quali è per il narratore non riconducibile all’umana natura. Tuttavia, un episodio, le cui conseguenze ho impresse sul corpo, ha imposto un brusco e repentino mutamento al mio suddetto atteggiamento. Sentite. Sono ospite di un amico che risiede in un piccolo comune della Romagna-Toscana, all’interno di un palazzo secentesco. Precisamente in un appartamento ricavato dagli ambienti un tempo adibiti a cucine. A testimonianza, in una nicchia, a sinistra della porta d’ingresso, è presente il pozzo, un tempo utilizzato per l’approvvigionamento dell’acqua potabile, ora elemento d'arredo: pur non servendosene il mio amico lo ha mantenuto ponendovi sopra una spessa lastra di cristallo. Durante la cena, il mio ospite, mi racconta che lì, in quello scavo verticale, oltre due secoli or sono, nel breve periodo in cui le lucciole illuminano il parco a servizio del palazzo, visi gettò Galatea, eterea figlia del responsabile delle cucine. La giovane era intenta alla preparazione di una pietanza per il suo amore, Brando, per ricambiare il pegno d'amore che le aveva donato, un ciondolo a forma di cuore, ricavato da una vecchia ed inservibile marmitta, quando le sue vesti, a causa di un tizzone ardente, s’incendiarono. La poveretta, per non perire arsa, si gettò nel pozzo. Al fine di evitare che la putrefazione delle sue carni contaminasse l’acqua, si tentò di recuperare il corpo, tuttavia ogni ricerca fu vana; solo le vesti parzialmente bruciate e strappate furono recuperate.
Tale accadimento, non avendo spiegazione alcuna, fu ricondotto a qualche maleficio dovuto all’invidia per l'amore dei due giovani. Il pozzo e le cucine furono benedette dal vescovo. L'acqua attinta dal pozzo non presentava alcuna contaminazione. Di conseguenza la gente ritenne che il presunto maleficio fosse stato lavato dall'acqua santa agitata dalla mano allenata del vescovo.
Si narra che dopo qualche tempo, quando le lucciole compaiono nel parco, si sia veduto lo spirito di Galatea piangente in cerca del suo amore perduto vagante con le vesti fradice e un ciondolo incandescente al collo tra i tronchi secolari, nei pressi della piccola cappella eretta in fede della Madonna della Neve.
Dopo la narrazione di questo triste e breve aneddoto, la notte trascorse avvolta in una coltre di sonno profondo. Nelle fantasie notturne, condizionate dal racconto e dal Sangiovese, Galatea mi comparve in tutta la sua bellezza: fluenti capelli neri, occhi nocciola, labbra rosse, seno abbondante e sodo, fianchi ben delineati. Tendendomi la mano, quasi correndo per i vicoli acciottolati, mi condusse alla bottega del fabbro ed ivi si fermò.
“Eccolo, lo vedi Brando, come è bello anche se sporco di fuliggine? Guarda come si gonfia il muscolo sudato mentre batte il maglio. E quella bruciatura sull’avambraccio? Un giorno diverrò la sua sposa ed ogni sera, godrò nel lavarlo accuratamente, prima che...il suo..” - mimò il gesto - “mi percuota dentro. Quando mi ha chiesto se in cucina ci fosse una vecchia pentola, non ho esitato” - così disse giocando con il ciondolo pendente a forma di cuore.
Il giovane si volse, le sorrise dolcemente, lo sguardo penetrante e luminoso, le labbra carnose sotto un piccolo naso dritto le inviarono un bacio delicato. Era proprio un bel giovane.
In disparte tra il barlume della fucina un viso si intravedeva con un ghigno poco rassicurante. Era il fratello dell’innamorato, così dedussi stanti alcune particolarità comuni, intento ad affilare alcuni coltelli.
Sulla strada del ritorno Galatea non fece altro che parlare del suo amore corrisposto, dei loro progetti, dei figli. “Chissà a chi somiglieranno!” - esclamava interrogativamente.
Durante l’attraversamento del ponte della vecchia fontana la sua mano fu strappata dalla mia, come da un turbine di vento, senza che io potessi intervenire. Rimasi per alcuni istanti immobile come lo si può essere solo nei sogni. Una figura travisata da uno scuro mantello la trascinò via, verso il vicino castagneto, ponendole uno straccio sulla bocca per impedire le urla. Si fermarono ove gli alberi ombreggiavano un piccolo capanno di pietra al cui interno crepitava un fuoco, poiché dal comignolo usciva fumo. Sul retro udii il grugnire di alcuni maiali chiusi in un recinto; dedussi fosse l’allevamento a servizio del palazzo. Dal cappuccio del mantello comparvero le fattezze del viso ghignante che vidi nell’ombra della fucina. Non era somigliante a Brando, era identico. Era Canzio, il gemello di Brando, macellaio presso le cucine. Quell’uomo adagiò a terra, senza accortezza alcuna, il corpo di Galatea privo di sensi e iniziò a strapparle il vestito di dosso. Si fermò a contemplare quella nudità e, avidamente come bestia affamata la violò in ogni sua parte, ghermendole il collo sino a che la poveretta non smise di respirare, rantolando il nome del suo assassino. Al termine della soddisfatta violenza, con una saracca romagnola le trafisse il seno e la gettò tra i maiali. Rimasi inorridito, mi parve di udire nel sonno un mio gridare che rimase inespresso in gola. Entrò nel capanno e gettò il vestito ed il ciondolo tra le fiamme, attese qualche attimo e prima che il fuoco li consumasse li raccolse avvolgendoli in un sacco. Come se nulla avesse commesso ritornò alle cucine, attraverso il parco. Nei pressi della cappella, il cuore, rosso come la brace bucò la trama del sacco e rotolò a terra insinuandosi in una fessura tra due gradini della scala in pietra che consentono l'accesso alla cappella, precipitando nella cripta sottostante. Furono le ultime immagini, poi, d'improvviso ritornai al presente con lo sguardo attonito al soffitto. Durante la colazione raccontai al mio amico quanto avevo sognato e decidemmo, subito, con ancora il pigiama indosso ed il caffè che si raffreddava nelle tazzine, di ritrovare quel cuore. All'interno della cappella, muniti degli accessori del camino, come attrezzi, rimuovemmo la polvere dalla fessura perimetrale della botola che dal pavimento della cappella, consentiva l'accesso alla cripta. Per sollevarla utilizammo un quadrello del cancello in ferro battuto che veniva utilizzato come traversa. Il pesante disco di pietra si distaccò dal suo alveo infondendoci timorosa curiosità. Il buio sottostante non consentiva di percepirne la profondità ed eravamo sprovvisti di torce e attrezzatura per immergerci. Ritornammo più tardi con una scala in corda dinamica, due caschi da speleologo con luce frontale, e due lampade all'interno degli zaini. Fissammo la scala all'altare e scendemmo. Poggiati i piedi a terra, scrutammo quello spazio oscuro, con le pupille che vi ci si abituavano lentamente. L'ambiente sembrava più ampio della cappella sovrastante e, contrariamente a quanto ci aspettavamo, era asciutto e privo di alcun odore. Illuminato il pavimento vi scorgemmo uno scheletro mummificato coperto da un mantello. Il cranio era aperto in due, come una noce, da un pesante martello da forgia. Poco lontano un altro scheletro seduto con la testa ripiegata sullo sterno. Tra le falangi il ciondolo a forma di cuore. Uscimmo in silenzio, senza toccare alcunché. Riponemmo la botola nella sua posizione chiudendo l’epilogo di quella tragedia. Usciti dalla cappella, il sole era gia tramontato, nugoli di lucciole ci illuminarono il cammino. Il mio amico ed io ci guardammo negli occhi e ci baciammo profondamente. Fu una notte nuova e movimentata. Al mattino, durante la rasatura, notai che nella parte anteriore del collo, proprio sulla sporgenza formata dalla laringe, era apparsa una macchia a forma di cuore, piccolo segno indelebile di una lieve bruciatura.

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