La predizione del terremoto del 1980 | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La predizione del terremoto del 1980

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          Nel 1980 un mio cugino era cronista a “Il Mattino” di Napoli.  Irpino di nascita, se ne era venuto nella città partenopea già diversi anni prima per motivi di lavoro. Per la verità, gli erano sempre assegnati fatti di secondaria importanza come: scioperi di netturbini, incidenti stradali, furtarelli e, di tanto in tanto, rapine. Nonostante, però, che i suoi articoli occupassero brevi trafiletti di spalla agli accadimenti più rilevanti della cronaca cittadina, egli riusciva a renderli efficaci con uno stile tutto particolare, ricco di vena ironica, grazie alla quale centrava sempre il problema. Così, nel riferire di un furto portato a buon fine nel reparto “articoli da mare” di un supermarket, e della relativa fuga del ladro, scrisse: “Il furfante se n’è uscito per il rotto della cuffia.”

Naturalmente, Ferdinando mio cugino, non viveva solo scrivendo articoletti saltuari su “Il Mattino”. Egli insegnava materie letterarie in un Istituto Commerciale di Napoli.  Non era sposato e amava la vita libera. Con il giornale napoletano indagava per lo smascheramento di tanti maghi e cartomanti truffaldini che, grazie alla credulità popolare, agivano indisturbati e truffavano la brava gente. In un mondo tecnologicamente avanzato come il nostro era pur strano che già all’inizio degli anni Ottanta la magia avesse ritagliato uno spazio ampio e prestigioso, tanto che due italiani su dieci andavano da sedicenti e scroccaldini esoteristi almeno una volta l’anno. Ferdinando, affascinato, comunque, da occultismo, stregoneria e negromanzia, per tanti straordinari racconti che durante la sua infanzia gli narrava la nonna, così come acutamente disse Jean Michelet, era convinto che la magia fosse “il luogo d’espressione delle attese e delle aspirazioni collettive”. Egli, iniziò, quindi, una vera e propria crociata contro tutti quei lestofanti che, definendosi operatori dell’occulto o cartomanti, carpivano la buona fede popolare.

          Fu così che prese a denigrare dalle pagine del giornale l’operato di vari sedicenti maghi, stregoni, santoni e guaritori che avevano impiantato in Campania veri e propri studi professionali nei quali ordivano truffe colossali ai danni di malcapitati creduloni. Per questo, per amore o per forza, dovette necessariamente documentarsi sulla magia, argomento affascinante che evoca sciami d’immagini seducenti e tenebrose e sfugge ad esaustive definizioni. Si dette allora alla lettura di Boyer (“Le monde au double”), di Debus (“ The irrational factor in the rational scienze of the seventeenth century”), di Rossi (“Clavis universalis”), di Bacon ( “Sylva sylvarum” ), di Hartmann ( “Magic white and black” ) e di tanti altri, convinto di poter combattere la malafede di quei falsi operatori esoterici con l’acquisizione della vera conoscenza di quelle scienze nelle quali essi dicevano di navigare.
 
          Naturalmente, come spesso accade, più leggeva ed imparava e più si rendeva conto che magia, stregoneria ed occultismo fossero pratiche astratte che l’uomo aveva fin dall’antichità esercitato in difesa contro le avversità che incombevano sugli individui e sulla collettività. Tra le tante letture, fu attratto da “Il culto delle streghe nell’Europa occidentale”, testo scritto da Margareth Murray nel 1921, in cui l’autrice proponeva un’interpretazione assolutamente diversa della stregoneria, secondo la quale la strega era essenzialmente partecipe di un’organizzazione rituale che esprimeva non solo una rivolta contro il cristianesimo, ma anche la sopravvivenza di una religione del tutto indipendente e più antica del cristianesimo: il paganesimo precristiano, ancora vivo nelle campagne.  Questo concetto era pienamente condiviso da mio cugino che partiva dal presupposto che gli uomini primitivi e quelli civilizzati avevano le stesse caratteristiche biologiche, ma, a causa delle pressioni di divergenti influenze sociali, la loro visione del mondo era ampliamente differente. In poche parole, più l’individuo è ignorante, più distorte vede le immagini della realtà che lo circonda. Ma veniamo adesso ai fatti accaduti a Ferdinando nell’arco di tempo che andava da domenica 16 novembre a domenica 23 novembre del 1980. Egli spesso organizzava con gli amici escursioni in varie località della Campania. Proprio la domenica del 16, con Gustavo e Massimiliano, se ne era andato a Cerro del Ruccolo, in Molise, 888 metri sul livello del mare, 17 km da Larino. Dopo aver lasciato a Guardalliera la strada statale che da Campobasso conduce a Termoli, i tre amici, a bordo di una “Ford Escort” di proprietà di Gustavo, attraversato anche Larino, s’inerpicarono per la tortuosa strada che conduce a Cerro. 
 
          E’ questa una terra in cui la vegetazione è rigogliosa con alberi d’ulivo ed alberi che traboccano di noci, tanto da trovarne anche lungo le strade. Superati però i seicento metri d’altezza, la flora si dirada pian piano per infittirsi di nuovo su a Ruccolo con un folto boschetto. Il posto è pieno di caverne seminascoste dagli arbusti di more selvatiche che vi crescono in abbondanza. Parcheggiata l’auto, mio cugino e i suoi due amici s’inoltrarono tra la vegetazione fino a raggiungere inaspettatamente una piccola radura nella quale si ergeva un casolare. Si trattava di una costruzione malandata, apparentemente in stato di abbandono. In realtà la casa, con tanto di pollaio, stalla e di annesso porcile, era abitata, ed, infatti, sulla soglia comparve un vecchio che, prima scrutò i tre con molta attenzione e curiosità, poi gridò loro:
- Ohi là, chi siete? -
- Siamo gitanti e veniamo da Napoli…- disse mio cugino.
- Gitanti? Ah, venite da Napoli? E trasite, trasite…- disse il vecchio accompagnando le sue parole con un gesto d’invito.
Il clima non sembrava essere quello solito di un novembre inoltrato, l’aria era tiepida ed il cielo sereno era qua e là tappezzato di nuvolette pallide sotto le quali stormi di uccelli migratori disegnavano e ridisegnavano figure con i loro voli.
- Trasite…- disse ancora il vecchio: - Trasite che ve faccio bere ‘nu poco de vino e ve faccio magnà ‘na caciotta!- L’invito era perentorio, ed i tre, confortati anche dall’odore del legno che, nonostante non facesse per niente freddo, bruciava nel camino, non esitarono ed allegramente entrarono. L’interno era un ambiente misero, il pavimento era rappezzato qua e là con mattonelle di diverso stile e colore, le pareti erano al nero fumo, non c’era un solo quadro, su una di esse c’era un attaccapanni al quale erano appesi dei soprabiti logori e stinti. Ai lati del camino grondavano pentole, mestoli e tegami, tutti in rame e ferro battuto. Ai due angoli della parete dove c’era questo focolare, a malapena si reggevano una decrepita credenza ed un cucinino interamente fatto in muratura con i fori per la carbonella e le griglie di ferro adagiate sopra. Al centro della stanza traballava un tavolo con quattro sedie impagliate.  Intenta ad attizzare il fuoco c’era la vecchia moglie dell’uomo che li aveva invitati. Era costei una donna in età ormai avanzata, e, sebbene si muovesse lentamente, sembrava ancora forte ed energica. Provvedeva alla casa, al maiale, alla mucca e alle galline, e col marito, all’orto di casa e ad un vecchio cavallo mezzo azzoppato.  - Rafilina! – urlò l’uomo appena entrarono in casa: - Che qua teniamo ospiti. Portaci una fiasca di vino e ‘na caciotta…-
- Ospiti? E chi sono? Rispose la donna incuriosita. I tre spiegarono alla vecchia che erano semplicemente dei gitanti domenicali venuti a trascorrere una mezza giornata da quelle parti. Quella li ascoltò con attenzione e poi disse: – E venite di qua?  A Termoli dovete andare! Alla marina! A vedere il mare dovete andare! Io l’ho visto da giovane! Due…no, tre…no, quattro, volte! Ti ricordi, Rocco, quando andavamo a Campomarino a trovare tua sorella?  Teneva ‘na casa che pareva ‘na villa! Bella! Piena di sole, di fiori! Appena che s’usciva fuori, si vedeva il mare. Quanto era grande quel mare! -
-Ma dai, vecchia!- interruppe il marito:- Questi al mare ci sono abituati. Vengono da Napoli.-
- Da Napoli?!- disse quasi estasiata la vecchia:- E’ un grande paese! Ti ricordi, Rocco, quando ci siamo stati nel ’40? Come si tiene il castello di don Pietro alla Vicaria? [1] E quell’altro di don Roberto come si mantiene?[2] Lo abbiamo visto nel ’29.- Intanto, mentre parlava, aveva approntato sulla tavola quattro bicchieri, il fiasco di vino rosso e la caciotta. –Ecco… – disse: - Servitevi.-
 
          Per la verità i tre non se lo fecero ripetere due volte e, come se stessero in osteria, cominciarono a raccontarsi storie divertenti e a far baldoria. Nel camino la legna scoppiettava confortevolmente ed il vino era “saggio” e buono, secco e tipicamente campagnolo; di quelli che si assaporano prima con l’olfatto e poi con il palato, tanto intenso ed inebriante era il profumo ed intrigante il gusto. In men che non si dica ben due fiaschi, l’uno dietro l’altro, furono svuotati e la caciotta fu mangiata con tale appetito che l’ultima fettina fu assegnata con il gioco del “tocco”[3] a Massimiliano che se la gustò sorridente e soddisfatto. Le ombre della sera scesero frettolosamente, tanto che ai tre amici parve strano che il tempo fosse trascorso così rapidamente. La stanza era illuminata solo dalla luce che proveniva dal fuoco che nel camino continuava a danzare e scoppiettare, e con esso danzavano, tremule, sui muri anche le ombre dei nostri giovani, del vecchio e della moglie. Ferdinando era già abbondantemente ebbro, quando fece scivolare il discorso sulla magia e sull’occultismo: - Sapete, ragazzi – disse:- perché nel Medioevo si scatenò l’accusa inquisitoriale? Per i rituali del famoso sabba che consisteva fondamentalmente in orge sessuali. Fu così che la stregoneria fu identificata con l’eresia.- E la vecchia annuendo e sorridendo, ripeteva:- Bravo, bravo, bravo…-. Poi Ferdinando, sempre più in preda ai fumi dell’alcool, continuò:- Secondo Joseph Hansen, l’epidemica persecuzione di maghi e streghe fu il prodotto della teologia medioevale, dell’organizzazione ecclesiastica e dei processi per magia istruiti dal papato e dall’Inquisizione. Sotto l’influenza della demonologia scolastica e della tortura, le streghe confessarono nefandi rituali mai compiuti. Praticamente era stata l’inquisizione ad inventare le streghe e la stregoneria…- La vecchia Rafilina, che aveva ascoltato con grande interesse, disse:- Ma voi alle streghe ci credete o non ci credete?-.
 
          Intanto, il fuoco nel camino si era quasi spento e la luce appariva ormai tanto affievolita che i corpi dei presenti si confondevano con le loro ombre. Quando Massimiliano e Gustavo caddero in un sonno profondo, mio cugino ebbe la sensazione che le ombre di Rocco e Rafilina si liberassero dei loro corpi e se ne andassero sul soffitto, dove si restrinsero via, via, fino a scomparire. Il capo della vecchia si avvicinò a quello di Ferdinando e cominciò a dondolare. Dalla bocca uscì un canto sottile, lamentoso, una nenia lenta e cadenzata: -Madre Aba, grande seno addò zucano le creature. Madre Aba, grande scodella addò s’auniscono attorno le creature. Madre tu sai la loro miseria! Non essere remota da loro! Tu li piglierai! Servono per la tua gloria! Li piglierai alla diciannovesima ora della penultima festa santificata dello penultimo mese di questo giovane decennio. Ma non qua da noi. A Larino e a San Giuliano ci verrai in appresso. Non qua ancora!-
I tre si svegliarono a notte fonda nella “Ford” di Gustavo, tutti in preda a nausea e ad un terribile mal di testa. Uscirono dall’auto per respirare un po’ d’aria fresca e Massimiliano fu addirittura assalito da conati di vomito. Dopo qualche minuto, si ripresero ed andarono a risedersi in macchina. Con le mani protese sul volante e la testa reclinata in avanti, Gustavo disse: - Che sbornia ragazzi!- E Massimiliano: - Già! Pensate che quei poveri vecchi devono averci finanche portati qui in macchina!-. Poi ripresero la via di casa rifacendo il tragitto tortuoso che da Cerro di Ruccolo li avrebbe portati a Larino; di lì, sulla superstrada per Campobasso e Benevento, ed infine sull’autostrada per Napoli. 
 
          Durante tutto il percorso di ritorno, nella mente di Ferdinando, riapparve ogni tanto il volto della vecchia e rintronavano le sue parole: - Aba, non essere remota da loro! Tu li piglierai! Servono per la tua gloria! Li piglierai alla diciannovesima ora della penultima festa santificata dello penultimo mese di questo giovane decennio. Ma non qua da noi. A Larino e a San Giuliano ci verrai in appresso. Non qua…non qua…non qua…-
Quella notte stessa egli fece un sogno: era in Africa in un luogo non ben identificato. Il pianeta Urano era a soli quattro gradi dal meridiano di Greenwich, quando si scatenò un catastrofico terremoto. Nei giorni precedenti, ogni volta che il pianeta era prossimo al meridiano, e cioè tra le ventidue e la mezzanotte, si erano verificate delle scosse minori. Chiunque avesse avuto la fortuna e la costanza di osservare il fenomeno si sarebbe tenuto lontano dagli edifici nel momento in cui Urano era prossimo al meridiano. Infatti, nel sogno, un paese africano non ben identificato fu completamente raso al suolo alle 11 di sera, e mio cugino, che aveva osservato l’evento astrale, si era salvato. Egli cominciò allora a girare senza meta fra le macerie dalle quali sentiva le grida d’aiuto dei sepolti vivi. Una voce lo attirò in modo particolare: era quella della madre che all’epoca viveva con un’altra figlia a S. Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino.
-Ferdinando! – gridava la donna:- Stiamo qua…qua sotto, io e tua sorella. Ma non darti pena, qua si sta bene. Vieni anche tu. Vieni, vieni a dormire dalla mamma…-
Il sogno lo impressionò talmente che il mattino dopo volle telefonare alla madre per accertarsi che fosse in buona salute e che tutto andasse bene.
 
          Il mercoledì successivo si recò alla redazione del giornale per la pubblicazione di un articoletto che aveva scritto una settimana prima. Erano le nove del mattino, in ufficio c’era un via vai di gente sempre indaffarata. Nel passare davanti ad una scrivania, notò che vi era poggiato sopra “Il Mattino” di quel giorno. Il giornale era piegato in quattro, in modo che la prima cosa visibile apparisse la pagina dell’oroscopo. Senza sapere neanche il come ed il perché, Ferdinando si ritrovò  a leggere le previsioni relative al suo segno zodiacale che, essendo egli nato verso la fine di maggio, era rappresentato dal Toro. “L’uomo saggio partecipa alle attività delle stelle” scrisse Tolomeo nel suo “Tetrabilos”. Mio cugino, pur avendo sempre ritenuto l’oroscopo una grande banalità, fu attratto da quanto c’era scritto su quel giornale: “Toro: non andate troppo in giro domenica, ma approfittate della giornata estiva per rimanere in casa e riposarvi.”.
 
          Nella stessa pagina lesse un articolo secondo cui nella gnosi volgare del II secolo d. C. si esprimeva una dottrina per la quale l’anima umana, presente “ab eterno” nella silenziosa memoria di Dio, scendeva attraverso i mondi e le sfere planetarie che le attribuivano una loro “pesantezza”. In base alla loro “natura” Marte dominava la sfera dell’aggressività, Venere determinava la spinta erotica, da Giove dipendeva il rango del soggetto, da Saturno la gloria, da Mercurio l’intelligenza e la capacità espressiva, Il Sole determinava il genio, la Luna stabiliva l’attinenza con il corpo fisico ed Urano, infine, regnava sulla fatalità.
 
          Immediatamente gli tornarono in mente il sogno fatto la notte precedente a proposito del settimo pianeta del sistema solare, circa la coincidenza della sua posizione con catastrofi sulla Terra e le parole della vecchia udite in stato di ebbrezza: “Madre Aba…tu li piglierai alla diciannovesima ora della penultima festa santificata del penultimo mese…”
Il giovedì, approfittando del giorno libero a scuola, decise di mettersi in macchina per andare a trovare la madre a S. Angelo dei Lombardi, un paese in provincia di Avellino, con meno di cinquemila abitanti, situato su un colle panoramico sulla dorsale appenninica che divide la valle dell’Ansanto da quella dell’Ofanto, Prende nome dal culto di S. Michele Arcangelo cui erano particolarmente devoti i longobardi che, nell’alto Medioevo, diedero origine al borgo. Donna Virginia, la madre di Ferdinando, abitava nei dintorni del paese, in una zona detta Materdomini, di fronte al monte Cervialto, alla testata della valle del Sele.
Mio cugino vi giunse verso mezzogiorno, giusto in tempo per mettersi a tavola.
 
          Particolarmente felice di quella visita fu la sorella Paola che gli annunciò il suo fidanzamento con un giovane bolognese. Mangiò a sazietà nella casa materna, situata fra boschi di querce e nel primo pomeriggio, approfittando anche della splendida giornata e del clima caldissimo, così insolito per quel periodo dell’anno, uscì con le due donne a passeggiare su per i poggi natii, a sentirne il respiro del vento, le parole delle fronde. Ricordò allora altre passeggiate con la nonna vestita di nero, alta e solenne, che gli raccontava storie di orchi malvagi,  streghe e briganti stimolandone così tanto la fantasia da fargli vedere folletti girare per i boschi, elfi cantare e “Pan l’eterno” andar solingo accompagnato dal soave suono del suo liuto.
- ‘Sti boschi so’ ‘ncantati…- sussurrava la nonna nelle orecchie del ragazzo:- Ci stanno le fate. Se le foglie si muovono, non è stato il vento, ma le fate; e ce ne sono di buone e di cattive. Se odi uno scricchiolio di rami, sono stati gli gnomi. Essi ti spiano, con i loro piccoli occhi, dai cespugli, dai tronchi degli alberi…-. Mentre raccontava, il vento sibilava appena fra le piante, scuotendo lentamente le fronde. Era allora che Ferdinando credeva di vedere cento occhi che lo sorvegliavano.  Era allora che gli sembrava che i grandi rami secchi degli alberi divenissero gigantesche braccia di esseri malefici pronti a ghermirlo.
- Ma tu, - diceva la nonna:- non devi aver paura di streghe o di altro, perché qui, in questo bosco, c’è il lupo buono che pensa a salvare i bambini.- Allora la nonna prendeva per mano il ragazzo e gli raccontava la storia del lupo buono.
- Due piccoli si persero nel bosco. Quando calarono le ombre della sera, pe’ se riparà da lo freddo, s’infilarono in un tronco cavo di una quercia. Gli arilli[4] cantavano co’ le cicale, li ranocchi gracchiavano ne lo stagno e le fronde parlavano co’ lo vento. All’intrasatto[5] tutto addiventò silente e s’audirono, allora, li passi pesanti de ‘no terribile orco che avendo annusato la presenza delli due bambini, li veniva a trovare per magnarseli. Era ‘na creatura bestiale, grossa e grassa come ‘no porco, e grondava bava da la bocca e sudore in tale abbondanza da lo corpo da  ‘nzuppare la terra in dove camminava. Si andiede a fermà proprio davanti a lo tronco cavo. Lì, co’ lo naso buttato pe’ l’aria, annusava come ‘no cane fa co’ la volpe quando ne cerca la traccia. Poi, drizzando le orecchie, audì lo palpito agitato de lo core de li piccoli e lo loro affannoso respiro:  “Io songo l’uorco fetente ca se magna la gente…” urlò cacciando sangue da li occhi: “…E pe’ merenda, la matina me magno li bambini!”. Così dicendo trovò lo nascondiglio e cominciò a ridere e a rumoreggiare schifosamente co’ lo corpo animalesco. Afferrò, allora, pe’ li zilli[6] le due creature e li trascinò infino a la sua tana. Li stava pe’ squartare quando arrivò lo lupo buono che d’un balzo azzannò l’orco e lo fece a pezzi tanto che lo miserabile sangue allagò tutta la tana. Poi prese i bambini in groppa e li portò alla loro casa.-.Intanto, mentre Ferdinando passeggiava con le due donne, il cielo s’era incupito con nuvole nere che minacciavano pioggia. Da lontano rotolavano tuoni sinistri, preceduti dal lampeggiare di saette del tutto particolari, che eseguivano una traiettoria insolita. Esse sfrecciavano improvvise in modo parallelo alla superficie terrestre, come se il campo geomagnetico, relativamente ad un’ampia area, si fosse modificato.Tanto tuonò che piovve, e Ferdinando, con la sorella e la mamma, furono costretti a riparare frettolosamente in casa.
 
          Per due giorni la pioggia cadde in tutto il centro-sud ed un vento di scirocco spazzò l’acqua spirando ad oltre cento km l’ora, provocando danni a persone e cose. Il sabato mattina mio cugino si svegliò madido di sudore. Durante la notte aveva dormito poco e male. La figura della vecchia di Larino lo aveva perseguitato a tal punto da farlo svegliare di soprassalto più di una volta. Aveva anche sognato di essersi perso in una foresta talmente intricata di rami e foglie da non permettere accesso ai raggi del sole. Per orientarsi avrebbe voluto servirsi di una bussola, ma l’ago magnetico tremava e girava come impazzito. La mattina, sentendosi la febbre addosso, si misurò la temperatura corporea: era di trentotto gradi. Doveva essere stata la pioggia presa il giovedì prima. Decise, allora, di telefonare a scuola ed avvertire che se ne sarebbe rimasto a letto. Quel Sabato il tempo si era rimesso al bello e faceva addirittura caldo. Ferdinando fece bollire del latte che bevve ben  zuccherato. Era l’epoca in cui Sandro Pertini sedeva al Quirinale, Arnaldo Forlani guidava il governo con Virgilio Rognoni al Viminale. Antonio Gava era ministro per i rapporti col Parlamento e Maurizio Valenzi era Sindaco di Napoli. In un Italia in bianco e nero, dove la TV a colori era un privilegio di pochi, mio cugino ne possedeva una. Del resto egli, vivendo da solo e guadagnando anche bene, qualche lusso poteva pure permetterselo. Nel pomeriggio seguì in televisione un programma scientifico che parlava del sistema solare e dello spostamento dei pianeti nel loro movimento di rivoluzione. Prestò particolare attenzione quando fu illustrata la posizione di Urano localizzato a quattro gradi dal meridiano di Greenwich. Si ricordò allora del sogno del disastroso terremoto, fatto qualche giorno prima. Turbato, cambiò canale (non è che ce ne fossero molti allora) e si mise a guardare “Happy days”. La domenica aveva ancora la febbre. Telefonò a Gustavo e Massimiliano dicendo loro che non si sarebbe mosso da casa. Telefonò poi alla madre e alla sorella rassicurandole sul suo stato di salute, solo temporaneamente precario. Nel pomeriggio si addormentò e verso le 19 fu svegliato proprio dal trillare del telefono. Senza accendere la lampada sul comodino, a tentoni cercò e trovò l’apparecchio e con la voce impastata di sonno chiese:
- Chi è?-
- Sono una strega!- gli fu risposto con voce alterata.
- Co…come?- balbettò mio cugino.
- Nando!- esplose una voce femminile:- Sono Angela! -. Era una collega di scuola che aveva un debole per lui:- Vedo che sei in casa. Ci speravo sai. Che ne diresti di andare al cinema? Al “Vittoria” danno “Terremoto” con Charletton Heston. L’ho già visto ma vorrei rivederlo, magari, con te.-
- Magari senza di me! – disse Ferdinando:- Mi hai trovato in casa perché sto a letto con la febbre.-
- Allora, magari vengo lì da te…-
- Magari…ma, vedi, veramente non  sto bene. Magari domani.-
- Vengo domani, allora…-
- Ci conto…-
Subito dopo il telefono squillò di nuovo. Egli credette che a chiamare fosse ancora la sua amica
:- Angela?-. Non rispondeva nessuno:- Angela sei tu? Dai non scherzare…-
Dopo qualche secondo di attesa udì una gracidante vocina che ripeteva:- Madre Aba, grande scodella, madre Aba, grande scodella…- e poi ancora:- E’ la festa santificata! E’ il mese! E’ il giorno! E’ l’ora!-
         
          Alle 19,34 cento secondi sconvolsero tutto il centro-sud. Nulla fu più come prima. Tremarono l’Irpinia e la Basilicata, l’alto Sele e il corpaccione malandato di Napoli con la provincia vesuviana. Furono rasi al suolo i “presepi” dell’Appennino e i casermoni malfatti della periferia partenopea. Una tragedia immane, subito evidente a tutti coloro, medici, volontari, carabinieri, vigili del fuoco, soldati che partirono nella notte per paesi sconosciuti i cui nomi: Lioni, S.Angelo, Conza, Teora, Materdomini, sarebbero rimasti tali se non fossero stati devastati dalla forza della natura divenendo ammassi di macerie dalle quali si levarono disperate grida di aiuto.
 
 
Racconto tratto dal mio libro "Ad occhi aperti"
 

[1] Don Pietro di Toledo che nel 1540 fece trasferire Castelcapuano da fortezza a sede dei Tribunali.
[2] Castel S.Elmo edificato per ordine di Roberto d’Angiò nel 1329
[3] gioco della conta
[4] i grilli
[5] d’improvviso
[6] i capelli
 

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