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Quando gli onesti votavano Berlusconi (breve racconto stupido di un viaggio breve)

Era sera, ieri sera. Il cielo era scuro per la presenza delle nuvole e pure perché, come già ho detto, era sera. Lottavo contro la mia pigrizia, mosso eroicamente dalla convinzione di riuscire nell’impresa di perdere 2 chili  in 5 giorni onde evitare di sentire i rimproveri del mio sarto. Già me la immaginavo la sua sentenza senz’appello, <<Ti devo allargare i pantaloni in vita, sei ingrassato>> avrebbe sbuffato, pensando al lavoro supplementare che avrebbe dovuto svolgere per farmi calzare a pennello il vestito da sposo sceso a compromessi con Santa Madre Chiesa, per amore della sposa.
Le mie sigarette erano sul tavolo. Centellinavo i secondi che sarebbero dovuti passare prima del calcio di inizio. Cazzo, ho pensato, ho 36 anni! All’età mia i calciatori professionisti appendono le scarpette al chiodo. Sono sveglio dalle 7, ho già fumato mezzo pacchetto di sigarette, sono otto anni che non do un calcio ad un pallone; se me ne fumo un’altra, andrà a finire che non riuscirò neanche ad allacciarmi le scarpette che già mi sarà venuto il fiatone. Dai Peppe, Resisti! Boicottiamo le nazionali del tabacco! Un ultimo moto d’orgoglio e di amor proprio per il giorno del tuo matrimonio, poi al ristorante, una volta che ti sarai fatto le fotografie con gli invitati, avrai la possibilità di rifarti come vorrai.
Sono rimasto seduto sul divano a rigirarmi i pollici lottando contro i miei demoni, cercando di raggiungere il nirvana come un bonzo. Ecco qua, erano quindici minuti che non fumavo e già mi era venuta fame. Ho aggredito una confezione di wurstel di pollo e tacchino crudi, mai fare attività fisica a stomaco vuoto, visto che c’ero ci ho messo a fianco anche un po’ di insalata e poi una banana per le fibre e i sali minerali, per  finire una bella tazza di caffè  e una bella sigaret… porca miseria! Ci ero ricascato. Quella maledetta forza dell'abitudine che a volte mi fa fare le cose senza pensarci, non tanto perché ho sempre fatto così, ma proprio perché io SONO così. Tipo come quando cammino per strada e sottoscrivo la prima lista elettorale che ha nel simbolo una la falce e martello, sono così sono comunista, oppure come quando cammino per strada e compro dai compagni del comitato autonomo la rivista “Lotta comunista” oppure “Il Bolscevico” ed oltre ai soldi del giornale, do anche 5 euro di sottoscrizione per la sezione, sono così sono comunista, oppure quando tra l'arrabbiato e il disilluso, vado a votare convinto di dare scheda bianca e alla fine metto il segno sul primo simbolo con la falce e il martello che vedo, sono così sono comunista, è il richiamo del sangue, come disse una volta un mio vecchio amico.
Beh, già che c'ero, ho fumato quella sigaretta che aveva il sapore amaro della sconfitta contro me stesso, ma una volta fumai una nazionale senza filtro, fregata dal pacchetto del compagno Peppone durante un tavolo di trattative, dove lui spiegava che Stalin in persona gli era venuto in sogno e gli aveva detto che solo lui poteva fare il sindaco del mio paese, e quel sapore lí era peggio. Guardavo fuori dalla finestra, sembrava volesse venir giù il finimondo ma niente, manco una goccia, il mondo mi dava il senso della polluzione adolescenziale. E poi, mica eravamo idrosolubili, si poteva giocare anche sotto la pioggia.
Si era fatto ancora un po' più sera, ieri sera, ma soprattutto era il momento di andare a preparare la borsa con tutto l'occorrente per giocare a calcetto.
Stavo giusto infilando la mia gloriosa maglietta azzurra col numero 2 di Grava nel borsone, che aveva cominciato a vibrare il mio cellulare. Un messaggio. Cavolo! Ho pensato, era andato a puttane il mio piano di stupire i miei amici, presentandomi una volta tanto in anticipo, invece ero di nuovo in ritardo come al solito. Ho aperto il messaggio, aspettandomi la solita domanda che leggo ogni volta che ho un appuntamento coi ragazzi: “Dove cazzo sei? Noi ce ne stiamo andando”, detto fra noi, gli amici coi quali esco scrivono tutti con un Italiano perfetto, non è da tutti questa cosa qui.
Dicevo, ho aperto il messaggio e oh! Oh Dio mio! Allora mi vuoi un pochettino bene! È un segno di distensione il tuo? Due notizie buone in poche righe. La prima è che non erano i miei amici che mi stavano aspettando, quindi ero in perfetto orario per stupirli e almeno per una volta, non incominciare una serata con il broncio (il loro ovviamente); la seconda buona notizia era che quel messaggio me l'aveva mandato la Feltrinelli per avvisarmi che il libro che avevo ordinato era arrivato.
Il giorno dopo, cioè oggi. È giorno stamattina, sono le 9 e qualche minuto. Apro gli occhi e sbadiglio, in realtà scoreggio anche come tutte le volte che mi sveglio. Sento l’acido lattico che mi pizzica i muscoli, è una sensazione che mi piace. La partita di ieri è durata un’ora, ma il tempo effettivo giocato è stato di una mezzoretta circa, credevo peggio. Per la cronaca, mi è capitato di segnare e casualmente dai miei piedi sono partiti anche 3 assist. Ad ogni modo abbiamo perso, ma con onore.
Mi alzo con cautela dal letto, perché chiedere al mio corpo ciò che non può darmi? Faccio colazione e il resto delle mie cose. Mi sento fiducioso, mi sento bene, mi sento talmente bene che un’idea alquanto balzana mi passa per la testa, una bella corsetta defaticante al parco! Sto quasi per convincermi, sto quasi per infilarmi i pantaloncini e una t-shirt da footing, che il vibrare del cellulare molto probabilmente mi salva da un probabile infarto per eccessiva attività fisica. È un messaggio pubblicitario, lo leggo e lo cancello, mi salta all’occhio di nuovo il messaggio della Feltrinelli, ah cacchio è vero! Il libro. Cambio di programma, la corsetta è rimandata a stasera, adesso devo andare in libreria.
Scendo di casa, c’è ancora il sole, i miei occhiali scuri mi danno un aspetto da intellettuale in incognito, almeno così credo. Cammino per strada silenzioso, succhiando una paglia, immaginando che da un momento all’altro qualcuno mi fermi per chiedermi un autografo. Che poi, chi dovrebbe fermarmi per chiedermi un autografo? Al massimo il postino che mi riconosce fuori al portone di casa e mi fa firmare la ricevuta di una raccomandata dell’agenzia delle entrate. Non è ancora il momento di essere famosi, magari un giorno, forse.
Il tragitto verso la libreria dura giusto il tempo di una sigaretta. Uno dei vantaggi di avere casa in centro. Spengo la cicca nel posacenere e mi do un tono prima di entrare.
Sono all’interno della libreria e mi sento in imbarazzo. Gli occhiali da sole che mi davano un’aria da intellettuale, adesso che sono in un ambiente chiuso, mi fanno sembrare uno stupido o un tamarro. Ho dimenticato gli occhiali da vista a casa e le lenti che porto, anche se scure, sono graduate. Se me le tolgo non vedrò più una mazza. Beh, me ne farò una ragione, se qualcuno me lo farà notare glielo spiegherò.
C’è fila alla cassa e questa è una cosa che mi rincuora.
Visto che ci sono faccio un giro fra gli scaffali promettendomi di non comprare nulla. Ecco un’altra prova della mia scarsa forza di volontà. Non appena adocchio il titolo di un romanzo di Palahniuk che non ho ancora letto, allungo la mano e prendo il libro. Già che ci sono prendo anche le Lettere Copernicane e vaffanculo ai terrapiattisti.
Quando ritorno alla cassa, c’è ancora la fila. Oggi è proprio un gran bel giorno. Non ho altro da fare che aspettare il mio turno.
Rimango immobile in mezzo ai rumori della libreria, al vocio sommesso dei clienti che parlano piano per non disturbare chi legge, le macchine passano sulla strada lì fuori senza rispetto per l’atmosfera ovattata degli ambienti affollati di libri. Quelle parole stampate bruciano, chiedono udienza ai nostri cuori e alle nostre menti. Stimolano i sogni, solleticano l’ego e la fantasia.
Inganno il tempo leggendo la biografia di Palahniuk sul retro della copertina. È la stessa per tutti i suoi romanzi, se avessi una memoria allenata, la conoscerei a memoria, però che è nato a Portland, me lo ricordo.
Alzo gli occhi per controllare lo stato di avanzamento della fila. Ancora cinque persone e poi io. Resto lì a guardare fisso davanti a me. Una schiera di immagini adesso mi tengono compagnia. Immagini evocate pensando all’autore del libro che ho ordinato e che fra poco acquisterò. Un amico mio fraterno, conosciuto una ventina di anni orsono. Era una notte d’estate, faceva un caldo boia, ma a Napoli fa sempre un caldo boia d’estate. Avevo 16 anni, lui qualche anno in più. Avevamo entrambi i capelli lunghi, il pizzetto e la barbetta stile Volto Santo nei santini delle nonne, lui aveva una maglietta dei Pearl Jam, io una maglietta dei Nirvana, avevamo dei bermuda che sembrava ci fossero passati sopra al galoppo tutti i cavalli della Cavalleria rusticana, calzini corti e scarpe Converse del ’92. Eravamo fighi, cercando di non essere fighi. Lui aveva una chitarra, io avevo una birra corretta al gin, altri amici intorno a noi avevano dell’erba. Passammo la serata a suonare, a bere birra corretta al gin e a fumare in maniera lecita e illecita. Lui suonava le canzoni dei Pearl Jam, io controbattevo con le canzoni dell’unplugged in New York dei Nirvana. Arrivammo ad un compromesso con dentro Marylin degli Afterhours, io suonavo e lui cantava. Alle 4 di notte circa, decise di insegnarmi tutta la sfilza di accordi di Paranoid android dei Radiohead. Fu la prima di tante notti passate assieme.
Ci incontrammo fuori ad un bar il pomeriggio seguente. Avevamo i postumi della notte precedente ed in cuor nostro sapevamo che fra poco ore avremmo ricominciato. Avevamo ancora addosso gli stessi vestiti fighi cercando di non essere fighi. Parlammo piano, succhiando una sigaretta dietro l’altra, ce le scroccavamo a vicenda. Lui aveva già letto Trotsky, io volevo leggerlo. Suo padre era trotskysta, mio padre era marxsista leninista. La differenza c’era, almeno negli anni 70. Beh penso che da quella chiacchierata è cominciato tutto. La musica è sempre stata una costante, ma la politica è stata la regola. Ovviamente è stata un tipo di politica di periferia, che è tutto dire. La periferia di allora non è mica come la periferia di adesso, all’epoca significava veramente vivere nel peggior buco del culo del mondo, anche se la città era a 15 minuti di macchina. C’erano peli e puzza di merda dappertutto e poi c’eravamo noi, studenti spocchiosi di fede comunista, che invidiavano la gioventù politicizzata dei loro padri, ma presto scoprimmo che anche noi ci saremmo potuti divertire. Abbiamo avuto il nostro Vietnam, solo che a noi si chiamava Ex Jugoslavia prima, Afganistan poi e poi ancora Iraq. Abbiamo avuto i nostri morti, i nostri feriti e le nostre torture nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Abbiamo avuto tutto e forse un giorno avremo anche giustizia. E anche al nostro bel paesello, non ci siamo mica annoiati. Volevamo fare la rivoluzione a casa nostra, le risate! Oh, ce ne fosse stato uno che per una ragione o per un’altra non ce l’avesse con noi. Devo dire che su questo punto riuscivamo a mettere tutti d’accordo. Ci hanno sfondato la sezione due volte e la sera giravamo sempre in gruppo. Avete mai provato l’emozione di sentire un click quando parlate al telefono? Beh noi la provammo, a seguito delle minacce che avevamo ricevuto. Ma noi continuavamo imperterriti e non chiedetemi il perché, perché oggi come oggi, manco me lo ricordo, ma so solo che all’epoca ci credevamo veramente. Arrivavamo perfino a scherzarci sopra. Facevamo la conta a chi di noi avremmo dedicato la sezione, a chi la sala delle riunioni con gli iscritti, a chi la sala col computer, a chi il cesso. Ogni partita di calcetto diventava un memoriale per qualcuno di noi. Eravamo i personaggi de “I demoni” di Dostoevskij, ma molto più coglioni e molto più provincialotti. E la gente? Dico i non addetti ai lavori, la società civile insomma. Beh qualche segno di approvazione l’abbiamo anche ricevuto, poi c’era chi ci urlava contro di andare a lavorare – ma noi eravamo studenti, Dio santissimo! – e chi ci prendeva sotto braccio, guardandosi intorno con circospezione, manco fossero spie del KGB, e ci sussurrava all’orecchio “Ma chi ve lo fa fare?” Eh chi ce lo faceva fare di assumerci tanti rischi, solo perché sognavamo una società più giusta. Chi ce lo faceva a fare a credere nel socialismo reale.
Erano tutti onestissimi nel 2001 quando votarono per Berlusconi ed erano tutti onestissimi quando al mio paese votarono per un’amministrazione che dopo un anno e mezzo fu sciolta per infiltrazione camorristica. E tutti sapevano tutto, me compreso.
Avanzo lentamente e aspetto che anche l’ultima persona che mi precede venga servita alla cassa. Ho ancora un paio di minuti per chiedermi, se fossi ancora disposto a rifare quello che abbiamo fatto 15 anni fa. Il cuore dice si, la mente dice prenditi ancora qualche minuto per pensarci. Quando hai quasi 40 anni, a chi ascolti?
- Allora? – oddio! La cassiera mi legge nel pensiero!
Alzo gli occhi di scatto e catturo il suo sguardo, quello della cassiera insomma.
Sicuro mi considera come uno che ha voglia di farle perdere tempo. Io invece penso che abbia un gran culo e non solo in senso figurato. Ho perso il filo del discorso. Ho un attimo di smarrimento. Cerco di guadagnar tempo continuando a fissarla immobile.
- Come posso aiutarla, signore? –
- Ah, scusi – lasciamo stare il filo del vecchio discorso e ricominciamo daccapo.
- Dovrebbe essere arrivato un libro che avevo ordinato la settimana scorsa. La seconda natura di Mario Visone – le dico.
- Un attimo che guardo – mi dice. Mi dà le spalle e si piega in avanti a cercare il libro nello scaffale. Beh, non mi sbagliavo più di tanto in merito al suo culo.
Finalmente trova il mio libro e lo posa sul banco. Aggiungo anche i due libri che ho in mano. Me li mette tutti in un sacchetto, pago ed esco fuori, di nuovo in strada.
Ho tanti amici professionisti, che sono il mio orgoglio e adesso posso anche fregiarmi di avere un amico scrittore. Mi sento l’umore a mille, ma talmente a mille che decido di rischiare il tutto per tutto. Un all in per bagnare questo giorno così bello.
Percorro a ritroso la strada per tornare a casa, ma prima mi fermo in tabaccheria.
- Uelà sposo! – mi saluta la ragazza dietro il bancone, che già mi prende un pacchetto di Philip Morris blu, senza neanche che glielo chieda.
Pago le sigarette e poi cambio una moneta da 1 euro con due monete da 50 centesimi.
Impavido come un generale che fronteggia l’esercito nemico prima che la battaglia inizi, infilo una moneta nella bilancia e salgo sul piatto. Chiudo gli occhi, tiro un bel respiro e … cazzo, cazzo, cazzo! Puttana Eva e puttane anche le sue sorelle! Ho preso un altro chilo negli ultimi sette giorni. Non ho scampo. Il sarto mi aspetta al varco e se non mi presento all’appuntamento, mi verrà a cercare a casa con l’ago fra i denti.
Ma come funzionano quelle diete quelle diete sconsigliate da tutti i dietologi, che ti fanno perdere 5 chili in 7 giorni, delle quali leggo negli spam che mi arrivano nella casella mail? Ma soprattutto dove abitano le quarantenni della mia zona che aspettano solo di incontrarmi?
Masticando amaro, mi metto il pacchetto di sigarette nuovo di zecca in tasca, riprendo il sacchetto coi libri. La tabaccaia non mi dice nulla, ma so che in questo momento solidarizza con me. La saluto con un cenno della testa e lei ricambia con un sorriso.
Ritorno sul marciapiedi e muovo gli ultimi passi che mi separano dal portone di casa.
Raggiungo il mio pianerottolo e decido di prendermi la rivincita. Forse avranno fatto il trasloco mentre ero via. Suono il campanello del mio vicino di casa. Ancora nessuna quarantenne che non aspetta altro che incontrarmi viene ad aprirmi, ma al suo posto c’è sempre Roy il filippino. Ha quasi 50 anni, ma potrebbe sembrare mio fratello minore, anche se io non ho un fratello minore. È alto un metro e sessanta ed in tutto peserà non più di 40 chili. Ha gli occhi stretti stretti che sembrano chiusi. Forse lo sono davvero chiusi e lui riesce a vedere con la forza del pensiero. Ha i capelli neri ammaccati con la forma del cuscino. Di sicuro stava dormendo ed io gli avrò rotto le scatole, ma malgrado questo lui mi sorride mostrandomi i denti bianchissimi.
- Ciaaaoooohhh!!! – mi saluta sbadigliando.
- Brutto porco che non sei altro – gli urlo io serio – Qui c’è gente che la mattina va a lavorare. Se la notte ti tira, cerca di fare meno rumore! –
Roy dapprima ride, poi si ferma a pensare preso dal panico e alla fine il suo volto si tramuta in un’espressione di furia omicida.
- Stlonzo! Io stanotte elo di tulno – sbraita
-Ah si? E allora chi era che urlava nella tua camera da letto?- controbatto io.
Lui mi sbatte la porta in faccia molto probabilmente per resistere all’istinto di ammazzarmi. Lo sento urlare nella sua lingua e immagino che me ne stia dicendo di tutti i colori. Lo sento picchiare i pugni contro la porta e contro la parete. Quei pugni in faccia mi farebbero un male cane e forse me li meriterei pure, ma non riesco a fare a meno di ridere. Gli voglio un gran bene al caro vecchio Roy, ma il nostro rapporto di buon vicinato è fatto di questi scherzi, tipo quando avevo lasciato la macchina nel parcheggio di fuori una notte che aveva nevicato e la mattina dopo mi son trovato una scultura di un cazzo grande quanto la larghezza del parabrezza. Era così bello quel calco che quasi mi dispiaceva distruggere quell’opera d’arte. Era stato lui l’autore.
Apro la porta di casa con le chiavi e trovo la mia compagna ritta al centro della casa in posa da cazziatone, con le braccia incrociate e il piede destro spostato avanti che batte il pavimento a ritmo di un ottavo.
- Hai finito di rompere le scatole al mondo intero?- mi dice. Ha sentito le urla di Roy.
- Ma dai che scherzo! – le faccio io.
- Quel poveraccio stanotte ha lavorato – mi dice incazzata come se fosse stata lei la vittima dello scherzo.
Lascio cadere la conversazione e cerco di baciarla, ma lei mi volta le spalle immusonita. Dice che a volte esagero ed ha ragione.
Tiro fuori i libri dal sacchetto. Sistemo Palahniuk e le Lettere copernicane sulla libreria, nello scomparto dei libri da leggere.
Tengo in mano il libro del mio amico. La precedenza va a lui.
Datemi il tempo di leggerlo e dopo vi scriverò anche la recensione.
 

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