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C’è della metafisica nella mia pigrizia

S’adagiano su una schiera di fossili
gli affanni del mio fallimento.
Respiro arie egocentriche,
atmosfere d’essai.
Gingilli. Bambole.
Pigmenti rosa.
E sono anche ciccione.
Cosa c’è di così sublime
nello scrivere una poesia?
Nulla. Assolutamente nulla,
quando il gioco triste
della maturazione è stato disseccato
da un vento caldo e puzzolente.
Eppure lo faccio. M’ingegno.
Gioco a fare l’indù della parola.
Il saltimbanco del guizzo.
Oh, quanto mi sento un bambino
che s’affanna nel suo biberon.
Lascio che tutto m’ingrossi la pera,
l’aria che respiro,
il sogno erotico di una vita piena.
il brutto è che la notte cala giù
sempre più impietosa
e dalla finestra i lampioni
sembrano gridare ostilità,
cose come bestemmie,
insulti, boccacce.
Ho fallito. Molto. E dunque lasciate
che io scriva.
 
 
*
 
 
C’è della metafisica nella mia pigrizia.
Nel  senso maniacale
di non rassettare la camera.
Nel  chiedere a mia madre
di farmi il caffè.
Odio dipendere dagli altri,
eppure sono un mucchietto di peli sporchi
attaccati alla fistola della mia famiglia.
C’è Dio su di me,
e mio padre mi guarda
alla fotografia in alto in cucina.
Crescerò un giorno?

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