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Siedo alla tavolata della depressione

Siedo alla tavolata della depressione.
Capotavola al mondo.
A destra del fiore,
a sinistra della morte.
M’affanno sulle cibarie
rozze e poco genuine.
Salvami, che c’ho un sogno
d’azzurro dove
s’ammaestrano le lacrime.
Oh come sono figlio
della rabbia dei secoli.
Mi sento come per un attimo
privato del principio
di non contraddizione,
come shakerato e
preso a calci in culo
da un agente della polizia sadico.
È vero c’è il depakin
e le serate sono
belle a Messina…
Ma io mi sento così depresso,
e vorrei che la giostra si fermasse,
che la luna vomitasse
la sua formaggera
o semplicemente
chiudere gli occhi
e ritrovarmi altrove. 
Dove si sta bene con la sofferenza.
 
 
*
 
 
Oggi vorrei parlare della vita. Non di tutta la vita.  Di una sfaccettatura singolare della vita.
E come cominciare se non fotografando dal basso un paio di calzette lise infilate anacronisticamente dentro due infradito (a Gennaio), una tuta doppia ics elle che sale fin sulla vita a caraffa d’un ventinovenne malandato, una felpa ordinaria con sotto un maglione ordinario con sotto una maglietta ordinaria con sopra una testa brillante ma malata. E ancora, i lineamenti greci del viso, il naso adunco, gli occhi che danno s’un verde giallognolo, una barba incolta lunga di mesi, i capelli arruffati, lunghi sino a coprire le orecchie.
Insomma, voglio parlarvi di un fallimento. Il mio fallimento.
Che poi non è triste fallire. Solo fallendo s’accede al mondo della poesia, diceva Cioran. È triste soffrire.
E io soffro. Pedissequamente. Con allenamento. Con virtù scientifica.
Sono otto anni che scrivo poesie, dapprima banali, trite, contorte, oggi stilisticamente migliori. Più immaginifiche. Essere poeta non è meglio che non essere poeta, anche se a me mi fa sentire bene. Anche le medicine mi fanno sentire bene. Bene e male.
È che c’è una zona nella pancia dove vuoi o non vuoi, nel tempo, riconosci qualcosa che ti manca, qualcosa che non va. E lì si sedimenta la paura. Siamo tutti bisognosi di dare un senso alla vita. Ma quando si mette in mezzo la paura, questo lupo, questo gigante dalla bocca di bottiglia rotta, ogni tentativo di riconoscere il segno, di dare significato, diventa un’ossessione affannosamente vana. Ed è lì che subentra la necessità del simbolo. La poesia. Il disegno. L’arte. Artisti non si nasce, artisti si diventa per necessità e con mestiere, e diventare artista, poeta nel mio caso, è il modo per sostituire l’ossessione del senso con una ossessione più dolce e gratificante.

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