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Frutti imprevisti

Alle sette in punto di un martedì la sveglia suona, come tutte le altre mattine.

 

“Taci, pettegola! Ho capito. Ho capito. Mi alzo subito” bofonchia Lia, ma non si muove. Poltrisce un altro po’ sotto le coperte, infine si arrende: sbadigliando, sbuffando e sospirando, mette giù una gamba, poi, con calma, l’altra.

Si lava in fretta, si veste, fa colazione ed è pronta per uscire; una guardatina alla cartella, un bacio alla mamma, uno al babbo e si precipita fuori.

Sono già le otto, se non si sbriga, farà tardi e rischierà, di nuovo, di essere rimandata a casa, accompagnata da Ottorina, la bidella.

Fa freddo: si abbottona l’impermeabile e sta meglio.

Dai portoni delle case di mattoni rossi escono persone d’ogni età, per recarsi chissà dove. A sinistra, invece, gente malvestita staziona davanti alle baracche di lamiera.

Tira avanti e allunga il passo; fino a lì una lumaca la batterebbe.

Prima del viale del Risorgimento c’è un alberello ogni dieci passi.

“Devono essere giovani questi pini, tanto sono bassi e sottili.” Osserva fra sé: “Le loro fronde agitate dal vento di mare mi accarezzano il viso come fruste.”

Fra due enormi palazzi identici appaiono i primi passanti, che chiacchierano animatamente, gesticolando.

Il rumore cigolante di una vecchia bicicletta attira l’attenzione: è Gigi, un vecchietto scorbutico; meglio girare alla larga.

Alla fine di un vialetto c’è un edificio che la incuriosisce: non si riesce ad individuarne l’ingresso fra negozi di tutti i tipi, un bar, un panificio, un rigattiere, una latteria.

Il fischio del treno che passa sul terrapieno della ferrovia la fa sobbalzare come lo strillo improvviso di un monello che tentasse di farle paura.

Dopo l’incrocio, è netto, stridente il contrasto fra la chiesa dei Salesiani solida e severa, da un lato, e un campo abbandonato e incolto con ciuffi di erbacce spinose che la fanno da padrone, dall’altro. Il passaggio del tram riempie di fragore la strada e,  allontanandosi, fa l’effetto del brontolio del tuono, d’estate, quando c’è un temporale.

Deve comprare un quaderno; sono le otto e dieci, se allunga il passo, ce la può fare. Attraversa la strada e si incammina per Via Pannocchia. La tabaccheria è aperta, ma perde tempo; se non si sbriga, arriverà in ritardo davvero.

Nonostante il rischio, non ha voglia di correre, perciò continua a camminare: come si respira bene a quest’ora e quanti dettagli spiccano nell’aria tersa, appena nata, del mattino.

Il garzone del droghiere pedala fischiettando sul selciato, zigzagando fra le bancarelle del mercato ortofrutticolo e le massaie si affollano, frugando in ceste colme di castagne, pere, cachi, mucchi di peperoni, pomodori e lattughe. C’è una quantità infinita di mele, di ogni qualità, di ogni prezzo: alcune sono rosse come il fuoco, altre verdognole, altre gialle, picchiettate di puntini neri.

Arriva sul Viale Carducci. Un furgoncino, con i pacchi dei giornali ancora freschi di stampa, che traballano sul pianale, si ferma davanti all’edicola, l’autista fa la consegna al volo, poi riprende la corsa.

Gruppi sempre più numerosi di operai passano sulle loro biciclette, zigzagando fra le bancarelle, mentre le sirene degli stabilimenti segnalano l’inizio dell’orario di lavoro.

Tutta la via si anima: è l’ora delle massaie, degli impiegati, degli scolari, degli studenti. Fra questi, fermi, ammucchiati davanti alle strisce pedonali in attesa del verde, improvvisamente Lia riconosce una faccia; lievi sono i cambiamenti, nonostante gli anni trascorsi.

Elisabetta è in prima fila, sicura e altezzosa, come allora, quando senza nessuna pietà le ha rubato i soldatini di gomma, che lei segnava con una X perché non si confondessero con quelli di altri, gelosa com’era della sua proprietà acquistata con tanta fatica, soldino dopo soldino. Non l’ha mai ammesso, neanche di fronte all’evidenza di un cassetto pieno nella sua cameretta; glieli ha rubati insieme alla fiducia dell’infanzia.

Non riesce a trattenersi, non pensa nemmeno; si avvicina dal fondo del gruppo, approfittando dei piccoli vuoti fra un corpo e l’altro, la raggiunge, le è dietro.

Basta un attimo, una spinta forte sulla schiena e si ritrae.

Un’automobile frena bruscamente, qualcuno urla. Ad un silenzio attonito segue immediato un coacervo di rumori, di suoni e di parole.

Sono le otto e ventisette. “Di corsa, ora, è tardi!” Sussurra piano.

Gli alberi, le case, le panchine, la gente le passano accanto come inseguiti. Non rallenta.

Si infila, in volata, nel portone della scuola. A Lia scoppia il cuore, ma ce l’ ha fatta.

Si guarda riflessa nel vetro della porta dell’aula. Non sa resistere e fa l’occhiolino a quella faccia soddisfatta e accaldata: “Mi dispiace solo di non aver potuto segnare una X sulla suola della scarpa di Elisabetta.” Le dice, piano, piano,  ridendo.

 

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