Il bambino e la lince | Prosa e racconti | giuliano leandro loy | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Il bambino e la lince

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Valeria aveva terminato di visionare quel piccolo filmato preso a caso, tra i tanti video che offre la rete di Internet.
Il documentario narrava della fame in Africa, e del povero continente ben sfruttato e vilipeso dalle variegate multinazionali di potere economico di mezzo mondo.
Il video aveva delle foto con delle immagini toccanti, e colpiva la crudezza in sequenza d’istantanee che ne determinavano l’effimera realtà devastante, subita da queste povere genti.
La terra Africana nel suo grande abbandono, da parte del mondo sviluppato!
<Valeria in soliloquio si domandava a se stessa, mentre aveva iniziato nuovamente a fare scorrere le foto nel monitor del proprio computer>.
Costoro erano i commedianti delle tante diplomatiche ipocrisie Internazionali, che ne palesavano nel converso del continente nero degli aiuti cospicui. I perbenisti Internazionali erano soltanto bocche ciarliere e fameliche di possesso, che ne sfruttavano del grande paese Africano le sue primarie risorse economiche, mandandogli al fine soltanto che poche briciole di denaro.
A Valeria le diplomazie democratiche apparivano come fossero bestie immonde, che smembrano la loro povera preda non per loro fame, ma soltanto per spartirsela nel loro solo … vantaggio di un famelico potere geografico ed economico.
Nel silenzio sepolcrale di quelle foto sceniche c’erano in primo piano dei volti scarni di bambini denutriti, d’insieme ai visi degli adulti rappresi dentro la propria totale precaria indigenza.
Gli sguardi incuriositi di quelle povere genti erano sparuti e smunti, e l’obiettivo fotografico ostentava inclemente i loro incavi orbitali, di fame e di stenti.
La macchina fotografica aveva colto nei volti di questo povero popolo, degli attimi usuali e colmi del loro dolore quotidiano; giorni infiniti per queste povere genti, e vissuti in piena emergenza esistenziale. Nel volto di questi poveretti si evidenziavano il proprio abbandono lascivo nel converso della propria esistenza, e i morsi lancinanti della loro atavica fame.
Gli uomini e le donne erano vestiti con dei miseri stracci, eppure, nelle loro iridi c’era una luce dignitaria nonostante la propria indigenza conclamata.
Di quelle povere donne con i loro bimbi l’obiettivo aveva fissato l’immagine del loro sguardo altero: occhi femminili perduti nella vastità di una loro terra aspra, inclemente.
 Costoro erano un popolo sociale e genuino nel loro comportamento, ed evidenziavano una propria fierezza antica, nonostante le proprie avversità di sopravvivenza esistenziale.
Valeria era riflettente all’egoismo e all’ipocrisia che alberga in ogni Nazione Europea, mentre la sua mente focalizzava maggiormente, una diapositiva in particolare.
La foto reporter aveva immortalato in questo villaggio, anche una donna molto alta e assai esile nella sua corporatura.
Costei era una madre che portava nell'altezza del proprio seno un fasciatoio realizzato in tela colorata, con dentro una splendida lince, mentre nelle sue spalle dentro un grande cesto c’era un bellissimo bimbo cui sporgeva il proprio grazioso volto.
Valeria era rimasta assorta dentro quello scatto fotografico, tanto è che la stessa immagine da lei visionata più volte l’aveva scaraventata inesorabile, dentro una sua profonda riflessione introspettiva.
Lei in quegli istanti era stata rapita dai molti tumulti emozionali che le scaturivano dal proprio animo irrequieto.
In lei, ogni sua riflessione gli s’insinuava con l’elaborazione del concetto e dell’autoanalisi, e di come potesse essere il sentimento del puro amore tra gli esseri viventi.
Nella giovane donna scaturivano dei baleni di logica impulsiva, che come fossero onde in alte frequenze, la lasciavano sconcerta in se stessa; affogandola nel proprio effluvio di rimorso emozionale.
Lei … che stava in quel silenzio prolungato penetrato e improvviso dentro la sua stanza, e che ne guardava delle proprie pareti dipinte del color verde quelle mura, come fosse una propria prigionia.
La sua casa, la sua dimora che gli aveva sempre negato uno sguardo obiettivo e valutante, per l’esterno del proprio sporco mondo.
Nella ragazza c’era la sensazione netta che la propria vita fosse formata da molte dimensioni condizionanti. Nella vita di Valeria c’erano state soltanto delle ingannevoli rappresentazioni, esigenze quotidiane le sue, di futili necessità costellate da una vacuità inaudita.
Per la giovane erano quei paesi sviluppati che egoisticamente promulgavano la loro mera ipocrisia.
Lei … inoltre aveva ben chiara nella sua mente la foto visionata attentamente in quel mattino, e le sensazioni che l’immagine gli aveva destato nel proprio animo.
Dietro le forti spalle dell’Africana s’intravedeva il volto di un adolescente, anche esso dolcemente rapito nel suo sguardo dentro un paesaggio vegetativo fitto, lussureggiante e quasi innaturale.
Il bimbo era posto dentro un grande cesto intrecciato di rami secchi, proprio come quei carnieri che si usavano nei nostri paesi nei primi del novecento, per la consegna settimanale di casa in casa, dei filoni di pane cotto a legna.
Valeria in quella foto interpretava la povertà dignitosa di un essere umano femminile; una donna che rappresentava l’incarnazione della sopravvivenza e dell’amore.
Il volto dell'africana rappresentava la superba fierezza di una sensuale femminilità piena della propria passione verso il sentimento dell’amore etereo, ed evidenziava nitida una propria forza individuale di una profonda umanità e di una materna determinazione.
Valeria era cogitabonda in quegli istanti, e rifletteva nella differenza sociale e culturale espressa per ogni popolo, verso un proprio concetto puro, dell’amore.
Nella giovane donna tutto in si era rimesso in discussione in quel pomeriggio settembrino.
I suoi momenti meditabondi cozzavano inevitabilmente con la loro precaria logica occidentale, nel converso di quella splendida immagine tribale.
La camera di Valeria ne era colma dei suoi molti ricordi adolescenziali, ed erano costoro soltanto che indizi determinanti, di una sua spensierata fanciullezza fin troppo distratta e trasognante.
Quelle mura gli apparivano come fossero state un ostacolo, alla propria visuale personale e interpretativa di quei suoi momenti.
Valeria si sentiva come fosse stata esiliata dentro un proprio minuscolo mondo zeppo di comodità e diversivi. Lei … una giovane donna che soltanto ora intuiva che fuori dalla sua casa c’era un mondo fitto di molte altre moltitudini umane diversificanti, e d’infinite rappresentazioni viventi, irrisolte.
Per la donna in quegli istanti suoi, il tempo stesso si era fermato nella sua dimora, e si era con i propri cadenzati secondi al fine addormentato, nel proprio lembo di perdurata indifferenza.
Nella ragazza c’era la sensazione netta che la propria vita fosse formata da molte atmosfere condizionanti. Nella sua vita c’erano delle rappresentazioni d’esigenze quotidiane indicanti soltanto che futili necessità, e di una vacuità inaudita.
Lei era china con la testa poggiata sopra il mobile porta computer, e le proprie braccia erano flosce e cadenti fin sopra alle sue ginocchia.
Valeria improvvisamente focalizzò il proprio sguardo in direzione di una fotografia appesa alla propria parete della sua stanza, dove il volto di un giovane ragazzo davanti ad un obiettivo fotografico sorrideva vistosamente.
Per Valeria persino Mattia ora … non era altro che un’immagine stantia, un fuggevole ricordo.
In lei quella istantanea non suscitava più la nostalgia di un amore incompiuto, e tanto meno per la donna, non c’era alcun desiderio di rivederlo quel suo giovane uomo.
La giovane indirizzò nuovamente il proprio sguardo verso quella donna Africana, riflettendo in se stessa.
Valeria stava intuendo che l’Africana non era altro che la rappresentazione universale di tutte le donne del mondo, e che costei non era altro che la madre di se stessa.
Per Valeria quel volto di donna raggrinzito dal sole cocente, e solcato dalle intemperie del tempo suo vissuto teneva celato in se, una profonda verità esistenziale.
Per quella donna Africana la propria sofferenza patita non era altro che una parte esigua di una più grande verità esistenziale, l’amore profuso … la compassione universale.
La donna teneva nel proprio volto espressivo un dolce sguardo rassicurante, dove non c’era insito alcun elemento di autocommiserazione in se stessa, né tanto meno la propria diffidenza indirizzata verso l’altrui diversità.
Quella figura femminile evidenziava una sua innata determinatezza a un proprio fine ultimo, e lei stessa era un’esplosione di vita prorompente, verso le proprie avversità esistenziali.
La tenacia espressiva dell’africana era composta di una forza inimmaginabile, e la sua propulsione umana e materna s’incarnava in un proprio effluvio d’amore immane.
Valeria era molto riflettente dentro un proprio soliloquio interiore, e ora … riconosceva nello sguardo fiero di quella donna la capacità dell’annullamento personale, a vantaggio della nascita di una qualsiasi vita.
Per la giovane il viso di quella negra rappresentava metaforicamente quel grido di dolore che manifestano le partorienti durante l’atto estremo del proprio parto; urla di gioia e di patita sofferenza contemporanea:
Un parto indicativo della creazione suprema, per un futuro diveniente.
Valeria d’improvviso pensò a sua madre, la donna che girava nel corridoio della loro casa con fare silente.
Si … sua madre, che dentro quella sua tormentata vita esistenziale si poneva ben oltre la propria realtà individuale, per accudire alla propria famiglia.
L’oblio vivente … nel sacrificio di pochi esemplari del genere umano.
L’arbitrio di essere uomini che si annullano ogni giorno, nella sommessa congiunzione ad altri esseri umani.
La propria sporca necessità di sopravvivenza.
Le tenebre interpretative che avvolgono come una spessa coltre di fango, tutto ciò che di luce e di ragionevolezza tenta di scaturirne per l’animo umano.
In questi principi apodittici aveva sempre lottato sua madre, pur rimanendo immersa nel proprio silente comportamento remissivo.
Valeria stava lanciando un proprio grido, dentro una propria caverna interiorizzante. In lei c’erano delle ombre minaccianti distendenti; una luce opaca che non gli lasciava intravedere il proprio animo.
Sagome illeggibili, ombre oblunghe.
La solitudine che la ragazza percepiva netta in se stessa pareva averla attanagliata con la sua stretta mortale.
Costei era una lunga serpe avviluppata al proprio collo; un suo disagio costante verso una propria metamorfosi che lentamente e inesorabile ne stritolava tutte le sue logiche immediatezze.
Valeria era in quei momenti percettiva di se stessa, ed era nella propria assoluta difficoltà a essere una completa donna.
La sua strada era stata fin dalla infanzia del tutto preordinata, come fosse un sentiero disegnato dalla mano di un mirabile pittore che lasciava intravedere un viale precostituito; una corsia di favore priva d’alcun pericolo e disagio interiore.
In lei ora, l’intemperie della sua coscienza gli albergavano proprio come fossero moti consci che impazziti ricercavano una propria dirittura di fuga, al proprio rimorso.
Valeria dei suoi trenta anni ne sentiva il peso esistenziale, pur essendo ancora molto giovane e molto attraente.
Erano i giovani della sua stessa generazione, che si erano sperduti in una società decadente e priva di valori esistenziali.
In Valeria persino Mattia gli appariva come fosse un povero orfano di sentimento, che vagava nella ricerca di un amore indistinto, inconsistente.
Valeria iniziava a percepire quel suo netto distacco da quel mondo occidentale e conformato mentalmente. In lei c’era quel suo modo maledetto di sognare di se stessa, ben avviluppata in un proprio universo di solitudine interiore.
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LA SFERA EMOTIVA DI VALERIA:
Tutto precipita in me, come fossi a peso morto.
Dapprima m’involo in me stessa, e dentro questa mia vastità, ne fluisco del mio interiorizzato universo. Plano in allerta, a seguire le mie pulsazioni venose che come fremiti s’immettono dentro le mie fantasie ascensionali.
Vibrò del suono che costato; per la fruizione copiosa ed emozionale dentro di me.
Parole che riecheggiano nella mia mente, e altre flebili voci si interpongono d’insieme ai miei silenzi.
Volo in attenzione, fin dove il mio occhio possa scorgere soltanto ciò … che mi è dato ascoltare.
Il mio senso disconosciuto, timoroso, raggiunge il proprio compimento.
Giochi acrobatici di realtà e sogno mi percorrono la fantasia, mentre le mie linee direttive del concetto si incurvano immaginarie.
Le mie aspirazioni e la mia curiosità che si fondono improvvise, e vibrano d’insieme al mio palpitante esserne vita.
Sono io che corro dietro di me stessa, e m’inseguo dentro un’ombra impalpabile; essenza la mia dal ghigno ineffabile e cadenzato.
Mi distendo con la mia immaginazione, e provo ha pormi finalmente corica sopra la nuda terra.
Sono completamente svestita dai miei concetti precostituiti.
L’impatto è violento, e mi sento sprofondante nella sabbia mobile del mio esistente.
Il mio sguardo interiore si è preso la propria rivincita, e il suo arbitrio si è trasferito ben più fuori da me.
Estemporanee vite parallele vivono le mie due realtà dimensionali e contrapposte.
Il dolore è … una sofferenza che mi strozza.
Questo mio tormento incomposto, che mi nega con i fantasmi della mia coscienza, il diritto di alzare gli occhi al cielo.
La felicità per me in alcuni giorni … è una putrida chimera.
Mi racchiudo allora dentro la mia incomprensibilità, e sigillo quella mia parte femminea che ostenta riflessione.
<Chi è … chi è che mi sovrasta con la sua suadente voce femminile, e che mi toglie il fiato!
Nel silenzio rivivo dei lunghi fotogrammi esistenziali, ricordi galleggianti come fossero detriti emersi improvvisi, in me stessa.
Questa è la mia unica vita.
<Mi ripeto tutti i giorni>
Le mie labbra sono interdette, mentre focalizzo questi miei dettagli fluttuanti.
Motivazioni istintive e violente le mie, come ne può essere soltanto il ringhio insoddisfatto di una donna incolpevole d’esser tale.
Una femminilità la mia che lancia i suoi presupposti in un domani; in un futuro che è immerso in un piccolo stagno rigurgitante di un efferato anonimato.
Il non senso della vita è … la mia spavalda analisi interiore.
La mia energia che tenta di rifuggire le acque inanimate dell’altrui indifferenza.
Mi ritrovo sovente, impietrita, dentro una mia attesa scenica ed emozionale.
Ho paura delle mie stesse urla afasiche, e ho nella mia voce il terrore d’essere contagiata dalle altrui insulse insignificanze quotidiane.
Le mie carni sono mutabili, per ogni giorno che al fine ne decade, ma la mia anima giammai.
Nel tramonto scorgo gli occhi loro sparuti, con le loro pupille di grande manifestazione per l’essere … assenti.
Cado sovente nel silenzio dei miei molteplici dubbi, e le mie diffidenze non mi relegano che in loculi identificativi e spazi d’ampie perplessità insoddisfatte.
Mia madre in questi giorni è muta più del necessario.
Questa figura longilinea di questa donna che tiene la lince e il proprio bambino, in questo giorno mi suscita riflessione interna.
La mia percezione sensoriale è del tutto inversa, per l’altrui condivisione emozionale.
Sono forse io … che rinnego degli stereotipi, che fuggo con i miei sogni illusori?
Sono tutto ciò che sono, una donna sola.
Sguardi voluttuosi e compiacenti si dimenano davanti ai miei occhi, tra i loro sorrisi ciarlieri, fuorvianti e vuoti.
Labbra in ombra le loro, sprofondi interiori in aliti spenti sono … di costoro, le parole.
Uomini che hanno perduto il proprio stato identificativo, e che vagano fluttuanti nella loro mondana e superficiale frivolezza.
Mio Dio … a volte mi manca persino la logica sequenza, alle mie loquaci parole.
Il silenzio non mi inganna.
Vorrei poter definire di questa gente, la loro invereconda essenza spettrale.
La solitudine mia è una ferita sprofondante; ed è un mio taglio emozionale non più cicatrizzante.
Tutto si compie allora.
Un quadro velato dove l’immagine di una figura malinconica ammira un crepuscolo decadente.
Un mio passaggio interiore tra fronde d’alberi informi, e ombre scure sparpagliate, in putredine di foglie morte.
Io sono la fosca figura che disamina il suo … non diveniente.
Immagino ancora quei tuoi occhi stupiti, iridi le tue attonite e melense, quando ti dissi che volevo essere dapprima rapita da un senso compiuto. Quante volte ti ricercai tra il molteplice folle; un fiume di occhi occlusi vi trovai lungo l’alveo del tempo mio gettato nel mio mero fato, nel mio destino.
Immagino ora … come fosse ieri, in quali meandri foschi potessero infilarsi quei tuoi pensieri di contraddittorietà, quando ti gridai che le tue obiezioni non erano altro che frasi impotenti per il tuo coito deludente.
I nostri maledetti sogni, da bambini adulti non cresciuti.
<Mi chiedo di sovente, quale sia il mio vero nome>.
Questa sono io, caro amico mio, e tra le mie miserie interiori almeno io ne scavo con le mie mani nude.
Come i gabbiani nella loro ricerca di cibo che planano rasenti alle acque, così io volteggio dentro una mesta mia sopravvivenza.
Quando finalmente mi decido di atterrare, nel mio carattere incostante fuggono e corrono i miei convincimenti, e cadono d’impatto sopra la dura sabbia.
Si cado … dietro un altro miraggio offerto dalla mia mente, che tenta nella perfezione del sentimento di trovarne finalmente una propria dirittura.
I gabbiani inseguono sempre la poppa di una nave, sperando nel poco cibo lanciato dal distratto viaggiatore.
Dove sono ora le mie appetenze per l’amore a malapena immaginato, e dove è quel mio volto adolescente che voleva fin troppo rapidamente crescere della follia degli uomini?
Dove è che si sono dissuasi i miei fremiti, e di quelle lunghe passeggiate immaginate in ore e giorni saturi della mia noia introspettiva.
Il dolore non è altro che una parte di me: un figlio perduto che non vorremmo mai dover ricordare.
La mia unica vita mi dice, e tutto ne fa parte.
Mia madre si aggira silente tra le stanze della casa, e somigliano quei suoi occhi vispi a quelli della donna con il bimbo e la sua lince.
La mia fragile esistenza che s’inchina alle mie molteplici supposizioni.
Il dubbio che ossequioso mi penetra nello spirito, così molto adattativo.
Io non sono altro che un progetto gettato. Una questua lanciata da un essere inclemente. Io sono una briciola di speranza che si concede ogni goccia del proprio vanto.
Eccomi. Sono io, e per la gente comune mi chiamo Valeria, anche se il mio nome potrebbe chiamarsi in altre mille donne.
Eccomi sono tra di voi, nuovamente intenta a socchiudere i miei occhi, e a inarcare le mie folte sopracciglia.
Il ricordo di un uomo che non era mio, poiché già di un’altra.
La verità dei suoi inganni, nelle bugie narrate dai suoi offuscati occhi.
Propendevo dentro i suoi respiri, e dalle sue labbra scaturivano lembi di baci violati.
La falsità è spesso assoggettata, alle misere paure.
Un malessere interno mi piega, mi tracima nel non rimorso.
Dove è quella donna che portava una lince dentro un fasciatoio alla altezza del suo seno, e che caricava dietro le sue spalle, il figlio.
Dove è quel suo sguardo rivolto e immerso dentro un orizzonte esistenziale, e quei suoi occhi non violati dal presente e dal futuro?
Lei è la madre di tutti noi, ma anche la madre di se stessa.
Quella donna e colei che lotta di principio in ogni santo giorno; combatte costei contro la credula stoltezza del preconcetto.
Tutto in me assume ben altro significato in questo giorno.
Mia madre ogni giorno in più, mi guarda con maggiore attenzione e sospetto, ma con me non proferisce parola. A volte penso che in lei vi sia una strana supposizione sul mio conto. Lei intimamente sta vagliando e analizzando i miei comportamenti.
Lei è una donna che ha portato nel proprio fasciatoio una splendida lince.
Le sue iridi invece per me sono degli specchi riflettenti, i suoi e i miei timori.
I miei trentanni in solitudine, il mio carattere cordialmente schivo, e la mia penombra esistenziale.
Il semibuio comunicativo, con cui mi esprimo in preponderanza con la distrazione della gente.
Mia madre percepisce il mio racchiudermi in me stessa, ma non ne comprende pienamente la ragione.
La mia maledetta solitudine che vivo costantemente, e che inalo dentro i miei polmoni.
Sono io la figlia di mia madre, ma anche la figlia di me stessa.
Quante volte ho imprecato verso il cielo, attendendo invano una risposta, un eco, una parvenza di una flebile risposta.
Quante volte ho ingannato me stessa, sognando ad occhi aperti scene mai avvenute, parole mai proferite, sguardi mai indirizzati.
Tutto si compie per me.
Valeria la bambina, come amano chiamarmi gli altri.
Io … la donna che ha gli occhi del colore interpretativo di una lince, e che porta nel proprio grembo un proprio figlio.
Io … la bimba disarmante che sta ben attenta che nessuno durante il proprio ardire gli possa prender gioco con l’inganno.
Mio padre attraversa le stanze del nostro appartamento, come fosse un sonnambulo, un uomo in balia dei suoi sermoni.
Lui mi appare come un sopravvissuto che si trascina lascivo dentro la propria vana esistenza. Egli ormai è incorporato dentro un mondo che vortica l’impazzata, e che lo tiene protagonista dentro il proprio negozio, del suo lavoro e della propria inespressiva inerzia.
Mia madre teneramente lo accudisce silente, e lo avvolge sovente di piccole premure.
Sarò io la madre della mia genitrice quando lei diverrà vecchia, e sarò anche la madre di mio figlio.
Sarò io … Valeria, la figlia china nella posizione fetale in se stessa.
Lo sguardo altero di quella lince, che accompagna quella docile e splendida donna.
Io che nelle mie spalle porto un mio omaggio … al futuro.
 
 
 
 

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