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Il romanzo dell'arte occidentale. Odissea nello spazio 2

Settanta anni dopo la scomparsa di Giotto, nacque Masaccio,.Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai. A tal proposito, vale la pena mettere fra parentesi questa postilla: quella desinenza in “accio” del nome ha sempre un senso spregiativo. Per esempio, anche Botticelli era detto “Sandraccio”, per la sua condotta, a quanto pare, poco morigerata. Nel caso di Tommaso, l’”accio” era dovuto alla sua trascuratezza, sia nel vestire che nel sociale (era trascurato persino nel riscuotere l’onorario che gli competeva).
Allora, il sipario del Rinascimento iniziava cautamente a discostarsi, lasciando trapelare un esile filino di luce, vale a dire di luce di scienza, non di rivelazione. E sul filo di quel tenue spiraglio tutta la vita di Masaccio trascorse come una meteora, che si spense difatti a 27 anni. E se qui ne parliamo adesso, a seicento anni di distanza, è perché tuttavia non fu invano che quello spiraglio troppo angusto si dischiuse al mondo. Dunque nel 1401 nacque Maso-Masaccio, che era “accio” in quanto trascurato nel vestire e persino nel riscuotere, ci racconta Vasari. E perché? Perché ci aveva un pallino fisso, continua Vasari, una specie di ossessione consostanziale al senso stesso della sua vita, e questa ossessione era la “perspectiva”. Fu lui il primo vero artefice della rappresentazione “scientifica”, suo il primo dipinto della storia umana costruito more geometrico con una esatta struttura prospettica. Masaccio fu il primo pioniere dello spazio, colui che ne codificò la rappresentazione in un modo pressoché definitivo. Quando su ”Odissea nello spazio”, il film di Kubrik, il monolito nero si mostra a David, l’astronauta che gli va incontro, cosa gli mostra? Gli mostra punti e linee che da una linea d’orizzonte gli vengono incontro. Gli mostra la prospettiva. Perché? Perché quando vi perdete nel bosco è ciò che cercate anche voi, linee, superfici, tracce visibili, indefettibili di ciò che non è natura, di ciò che è umano. L’umanesimo “che si vede” è tutto lì, nel “quadrato di base”, concetto su cui ritornare. Le linee prospettiche, pur se astratte, percepite da David sono le stesse della crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella. E quando Vasari affermò che nella volta dipinta di quella crocifissione pareva di poter affondarci una mano, diede voce ad un sentimento analogo a quello che noi, 500 anni dopo e abituati a ben altro, provammo alla prima apparizione della fantascienza epica, davanti allo scontro fra David e l’intelligenza artificiale (il calcolatore Hal),  e l’incontro fra lui e l’intelligenza trascendentale. 
Perspectiva  significa “vedere attraverso”, appunto vedere “per”, vedere “tramite”. Se noi l’abbiamo aggiustata in “prospettiva” è solo per devozione alla più perentoria divinità italica: la comodità. Solo che adesso significa che noi siamo “pro” (a favore) del vedere, il che non significa un accidenti. Vabbéh… “Vedere attraverso”, tuttavia, ci instrada sul senso che stiamo cercando, perché ci rende trasparente, attraverso le figure e le forme rappresentate, la sub-struttura, anche concettuale, che esse dissimulano. Questa struttura, come rimarcato in modo sublime da Panofsky, è una forma simbolica. E questo significa che la realtà non è la realtà, ma appunto quella forma simbolica che noi (il nostro linguaggio) le sovrapponiamo, in quanto che essa  è tale, la realtà, così come è percepita dai nostri sensi, ma questi la percepiscono giustappunto simbolicamente, secondo una modalità interpretativa che è conforme soltanto alla nostra umanità, e non alla universalità indifferente del Creato. La prospettiva è quindi una interpretazione, e una delle più proficue, della realtà, ma della realtà del vedere, ossia del nostro vedere, non di una realtà reale che, a quanto se ne può sapere, non siamo neanche certi che esista davvero.
Dunque, l’occhio vede prospetticamente. Ovunque giriamo lo sguardo, non vediamo che prospettive. Orbene, pur sorvolando sul fatto “tecnico” che è stato dimostrato che queste prospettive della nostra visuale non sono rette, ma oblique (cioè, se anche osserviamo il rettilineo di un’autostrada, le sue linee ci appariranno “convesse” e non rettifile), dobbiamo comunque confrontarci con alcuni punti fermi della nostra “interpretazione”. Anzitutto ci apparirà un orizzonte. Che cos’è un orizzonte?. L’orizzonte è la linea di terra. C’è sempre una linea di terra, se mancasse non saremmo in nessun dove e questo non è ammissibile. L’orizzonte è l’involucro della cosalità percepita dal nostro occhio. Sopra quella linea è cielo, sotto è terra: ecco, abbiamo creato l’universo della forma simbolica. Un universo limitato ai lati da due argini invalicabili, quelli del limite fisico dei nostri occhi, del loro spiraglio esterno. Due punti dai quali si slarga la luce della vista come quella di una torcia. Si tratta dunque di un cono di luce. È il cono visivo, all’interno del quale tutte le fughe del paesaggio si precipitano “a piramide”: è questo “la prospettiva”.
Ma c’è un “ma”: il paesaggio naturale si distanzia dal punto di vista discretamente e lascia poco adito alla fuga della prospettiva. Invece, onde inserire dei personaggi reali in un contesto reale, è necessaria una struttura più “tetragone”, per così dire. Qualche cosa che fornisca dei punti di appoggio per far scattare le fughe. Ecco che cos’è il quadrato di base, è un impiantito, un proscenio, una zattera su cui far navigare l’arca della prospettiva sull’oceano simbolico della rappresentazione. E così, come gettassero delle fondamenta, i primi pittori prospettici si ingegnano intorno alla costruzione di un semplice pavimento di mattonelle tutte uguali che, in grazia delle fughe, è dipinto come un trapezio con le mattonelle tutte diverse (per grandezza). Così vede l’occhio. Così è la realtà riportata al piano dell’immagine. È questa la conquista dello spazio.
Quando il giovane Masaccio irrompe nella pittura fiorentina, questa appare come il quieto dominio di una cultura cortese abbarbicata al decorativismo del Gotico Internazionale (fatte salve le figure dei due grandi a cui lo stesso Masaccio si ispirerà e che pare certo egli abbia frequentato: Donatello e Brunelleschi). È la scuola di Starnina, di Lorenzo Monaco, dello stesso Masolino, suo probabile maestro e collaboratore. Una scuola dall’animo giottesco che celebra, con una pittura bensì spaziale, una certa “gentilezza” cortese (Gentile da Fabriano ne era uno dei maggiori interpreti,) coniugata ad un piccolo realismo “umile”, nelle rappresentazioni sacre. Ma nel giovane Masaccio ardeva una passione umanistica che lo esortava ad una ricerca del vero inteso non,. o non solo, come resa spaziale, ma in cui tale rapporto “tecnico” fosse interrelato con un rapporto epico alla verità terrena dell’uomo. Ora, questo è ciò che si chiama Drammaturgia, e la sua voce più appassionata è quella della tragedia. Così, il Nostro contrappone alla tenerezza sovrannaturale delle epifanie di Gentile e di Lorenzo Monaco, un cosmo tragico sul cui proscenio si articola la centralità del dramma, della caduta, del dolore dell’uomo, fallibile e reo, e non quella della maestà del suo redentore. E allora, gli stessi incarnati, i panneggi, i nudi stessi dei personaggi rappresentati (Adamo ed Eva), divengono gravi e monumentali, come in un’assunzione solenne e tormentata appunto di quella umanità tragica e “pesante”, ma ineluttabile. E se la prospettiva mette al centro il punto di vista di chi guarda, ecco che questi è appunto l’uomo, non il Dio. L’uomo è misura di tutte le cose.
Masaccio allestisce così una vis-tragica dell’umanesimo che pur esaltando l’uomo, non si esime tuttavia dal rilevarne l’angoscia e la fragilità. E questo dramma è il nodo centrale che ne lega insieme il valore e il dolore, in una unità epica che il grande Michelangelo porterà alla trasfigurazione. 
 

  
 

 

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