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Il giardino segreto

 

L’afa è quasi insopportabile. È anche inopportuna, essendo solamente la fine di maggio, anche se ormai dovremmo essere abituati alle incongruenze meteorologiche. Sono le quattordici e quindici ed eccomi qui, con il mio solito anticipo di un quarto d’ora, ad attendere l’incaricato dell’agenzia immobiliare davanti alla porta chiusa. L’espositore giallo è lì, appoggiato al muro, a due passi da me. Inganno l’attesa sfogliando le brochures messe a disposizione dei clienti.

Sento dei passi, ecco che l’agente immobiliare, con tutta calma, si avvicina. Si scusa del ritardo, e quando gli chiedo dove sia la sua auto, risponde serafico che useremo la mia.

Controllo il disappunto, e finalmente ci avviamo.

Una stradina in acciottolato sale verso l’alto, perdendosi tra un muro e una quinta di rampicanti. Passo dopo passo, due mura ci accompagnano ad un piccolo portoncino di ferro.

L’agente fruga nella borsa in cerca di un mazzo di chiavi. Il portoncino scivola silenziosamente sui suoi cardini.

L’immagine di un pergolato di Kiwi si fissa sui miei occhi. Alla sua destra, una pianta di fichi libera i suoi rami verso il cielo, mentre il vento stormisce tra le foglie di un’alta palma. A terra, sterpaglie, rami spezzati. Un’automobile di plastica rossa sottolinea la solitudine del giardino. È un giardino racchiuso da mura, avvolto nel suo silenzio. Una bolla di quiete che si adagia nel primo pomeriggio.

Giro lo sguardo a sinistra, oltre al tavolo da giardino, e vedo la casa. Il bianco dei muri è interrotto orizzontalmente dal ballatoio e dalla scala esterna. La piccola porta sotto il balcone si apre sull’unica camera del piano terra. Entrando, abbasso istintivamente la testa. Un soffitto a voltini scandisce la parte alta della camera; scavalco una mattonella spezzata e mi avvicino al caminetto.

Un sottile odore di fumo colpisce le mie narici. Legna arsa, stagioni passate. Due piccole finestre si affacciano sul giardino segreto. Esco, un francobollo di cielo si incastra tra i rami del fico. E il ricordo prende il via.

 

Le foglie si stagliano contro l’azzurro del cielo che si stempera nella laguna. Venezia, immobile nella quiete delle prime ore pomeridiane, sonnecchia sorniona.

I rami del fico solcano il muro invadendo lo spazio circostante. I miei passi riecheggiano nella calle deserta. Solo, cammino lungo il sestiere di Cannaregio. Vago senza una meta, assaporando l’istante. Superato il Campo dei Mori, ecco la chiesa della Madonna dell’Orto. Un’esile striscia di prato contrasta con il colore della facciata. Mi fermo ad osservare le statue degli Apostoli inserite nelle edicole. Un gatto attraversa pigramente il prato. Il Casino degli Spiriti si specchia in laguna, mentre dall’isola di San Michele si alza un volo di gabbiani.

Cammino perduto tra rii e fondamenta. Il Ghetto vecchio è deserto, il silenzio è assoluto. L’acqua dei canali è di un verde pallido, temperato dal riflesso del cielo. Un portone socchiuso propone un invitante vano d’ombra. Entro. Nella penombra dell’Oratorio dei Crociferi, le tele di Palma il Giovane mi avvolgono e mi trasportano nella loro fisicità.

Visi, corpi, croci grigie su tuniche annullano il tempo. La Terrasanta è un indice puntato sulla battaglia di Lepanto. Le note di una corale polifonica, diffuse tra i dipinti, contribuiscono a enfatizzare maggiormente l’inquietante senso di atemporalità; mentre penso al vessillo quadrato, dove la madonna, al centro di un sole che espande tutt’attorno i suoi raggi come la bandiera del Sol Levante, assistita da due angeli, espone il lenzuolo della sacra Sindone. Vessillo che la tradizione attribuisce inalberato sulla nave capitana condotta da Andrea Provana nella flotta cristiana alla volta di Lepanto, e custodito a Torino nella chiesa di San Domenico.

Le galere escono incolonnate dall’Arsenale; il leone di S. Marco ha la spada in pugno e il vangelo chiuso: è tempo di guerra.

Pio V, in nome della fede, accorda l’assoluzione di tutti i peccati ai partecipanti della Lega Santa, mentre Miguel de Cervantes, l’autore delle pagine del Don Chisciotte, ne esce mestamente ferito.

Chiudo la porta alle mie spalle e abbandono le crociate. Venezia, come una dama d’altri tempi, calda mi accoglie. Cammino tra le pietre che mi osservano silenziose. Attraverso rughe e campielli, tra le note della musica di Vivaldi e il suono dei passi di Casanova in fuga dai Piombi. L’eco della risata di Hemingway fuoriesce dall’Harry’s Bar, rimbomba in piazza San Marco, i Cavalli della basilica impettiti nitriscono. Riflesse su un paio di lenti a specchio di un turista americano, le Procuratie Vecchie scandiscono la loro facciata. La folla gremisce la piazza, il carnevale si annuncia prossimo.

E, mentre “i Mori” battono le ore dalla Torre dell’Orologio, mi affaccio tra le due colonne al bacino della laguna. La Chiesa della Salute, da punta Dogana, con i suoi riccioli che circondano la cupola, sembra un enorme polipo trasformato in una statua di sale. L’isola di San Giorgio è una sentinella posta a guardia delle maree.

Il cielo, all’orizzonte, bacia la laguna.

Lame di luce fuoriescono da una nube passeggera, avvolgono una gondola che lenta risale il Canal Grande.

Un colombo tenta di abbeverarsi da una piccola pozza d’acqua dolce. Incuriosito, un turista giapponese scatta una foto, mentre nel cielo di Venezia si alza il suono greve della sirena di un battello.

 

 

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