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Maria Assunta

La chiazza di sangue era enorme.
Il rosso brillante si stava già scurendo ai bordi, virando verso il nero.
Mamma e papà capirono finalmente cosa aveva cercato di gridare nonna dalla finestra e misero una mano davanti agli occhi di noi due bambini, perché non vedessimo quell'immensità rossa spuntata nella tromba delle scale di casa. Ma era troppo tardi. Avevamo già visto. E se anche non avessimo visto, sarebbe bastato l'odore che impregnava tutto: un odore denso, sconosciuto e dolce.
Ci spinsero in fretta in ascensore, e poi in casa. Mentre aspettavamo il pranzo seduti in salotto, sentivamo i genitori e mia nonna che confabulavano in cucina. Non ci dissero niente, nessuna spiegazione. Ma noi sapevamo che bastava aspettare. Quando mamma e papà furono usciti per tornare al lavoro (allora non esisteva l'orario continuato), chiedemmo a nonna. E lei, con la tipica ruvidezza contadina di chi ne ha viste tante, rispose: «Ma niente, quella pazza di fronte si è buttata di sotto, dall'ottavo piano». Mio fratello voleva sapere i particolari: come avesse fatto, quanto ci avesse messo per arrivare e com'era dopo essersi schiantata a terra. Io chiesi perché. Alle domande di Paolo, mia nonna rispose con dovizia di dettagli. Alla mia, con un'alzata di spalle ed un sollevarsi degli occhi dal cielo.
 
Lei si chiamava Maria Assunta. Quando si uccise aveva venti anni. Era arrivata a Roma dal paese circa un anno prima. Era stato il suo fidanzato, primogenito della nostra dirimpettaia, a farla venire. A lui non piacevano le donne di città. Troppo libere, troppo sfrontate: addirittura alcune, come mia madre, lavoravano e guidavano la macchina. Lui voleva una moglie modesta e di sani principi. Così, tramite il parroco del paese di origine, aveva trovato Maria Assunta.
Lei andò a vivere da una sua zia immigrata nella capitale, che abitava non troppo distante da noi. Con il fidanzato si vedeva quasi tutti i giorni, ovviamente sempre alla presenza di qualcun altro: la zia di lei, la madre o la sorella di lui.
Maria Assunta aveva gli occhi perennemente sgranati. Neri, enormi, guardavano tutto esterrefatti: le macchine che cominciavano ad affollare le strade, la prima lavatrice a manovella che mia madre aveva comprato, l'ascensore del palazzone dove abitavamo, i vestiti delle donne che si accorciavano, le acconciature coi capelli cotonati.
A volte chiedeva spiegazioni a me: una bambina di otto, nove anni! Io sbuffavo, ridevo e poi le spiegavo. Lei mi guardava coi suoi occhioni, chinava il capo e le spalle di fronte alla mia sapienza e tornava dalla sua futura suocera.
Il fidanzato era un bel ragazzone grande e grosso. Lavorava nell'edilizia, all'epoca uno dei settori più redditizi. La ricostruzione post bellica, col boom economico, si era trasformata nel sacco di Roma: si costruiva ovunque e senza regole. Ben presto potè comprarsi una moto, su cui girava spavaldo con la camicia sbottonata ed una catena d'oro al collo. Quando non lavorava, era sempre con gli amici, fuori a far casino, e a rimorchiare "le borgatare", che si sa, erano di più facili costumi delle signorine che vivevano nei palazzi.
Così finì che lei non lo vedeva quasi mai. Stava sempre insieme alla zia o alla suocera. Aveva cercato di fare amicizia con la sorella di lui, ma questa era insofferente alle sue ingenuità e remore paesane, e appena poteva la scaricava.
Quando la incontravi, ti appariva sempre più spaesata, nel senso etimologico del termine. Le mancavano le serate con la sedia davanti al portoncino di casa a cucire e chiacchierare insieme alle altre donne di tutte le età, le passeggiate sulla strada principale del paese, le corse a perdifiato nei campi a primavera, la libertà della natura ed i rassicuranti vincoli della comunità.
Un giorno la vidi e quasi non la riconobbi. Maria Assunta si era tagliata la pesante treccia nera che le coronava il capo. Aveva i capelli corti, cotonati e indossava un vestito all'ultima moda. Il matrimonio si avvicinava e lei stava facendo le prove dell'acconciatura e degli abiti per il previsto viaggio di nozze sulla costiera Amalfitana.
Gli occhi, da sgranati, si erano fatti persi. Anche lei non si riconosceva. Ma aveva voluto assomigliare a quelle donne che sembravano piacere tanto al suo futuro marito, che in tutto quel tempo non le aveva mai dato un bacio né fatto una carezza. Per rispetto, si diceva, ma mia madre sollevava le sopracciglia quando lo sentiva.
A tre settimane dal matrimonio, Maria Assunta salì all'ottavo piano del palazzo dove abitava la sua futura famiglia e si buttò giù.
«Chissà che le è preso», si chiesero tutti per qualche giorno.
Il "lutto" del suo fidanzato durò circa un mese. Poi trovò un'altra paesana, e la sposò subito, dopo nemmeno tre mesi dalla morte di Maria Assunta. Nessuno la nominò più, finché anche il suo ricordo si perse.
 
Non riesco a immaginare quell'infinito precipitare, né lo schianto. Ma vedo ancora la chiazza di sangue. Da allora, non posso sentirne l'odore così come mi dà la nausea quello della vernice sul ferro: avevano dovuto aggiustare le ringhiere della tromba delle scale, là dove il povero corpo aveva sbattuto.
Quell'odore aleggiò per mesi. Molto più del ricordo di Maria Assunta.
 

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