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Ogni dubbio - sesta parte -

parte sesta
 
A quel punto, tra mille pensieri che mi frullavano in testa, ce ne fu uno che risultò vincente. E avvicinandomi lentamente alla scala, ributtai la vocina nel pozzo della coscienza e cominciai ad ipotizzare chi avesse potuto provocare quel rumore sordo. Potevano essere altri orsi russi che attendevano il momento propizio per agire o, ipotesi più plausibile, poteva essere la stessa donna bellissima che, qualche momento prima aveva tradito la mia fiducia e che ora, per timore, preferiva aspettare che la situazione s’acquietasse per poi sgattaiolare indisturbata. In cuor mio speravo che fosse proprio lei, così avrei potuto una volta per tutte chiarire questa assurda vicenda. Tanto irrazionale per le modalità, quanto illogica nei suoi aspetti più marcatamente personali. Cosa cercava di così importante Olga da buttare nel dimenticatoio un periodo d’amore così intenso, mi chiedevo mentre m’apprestavo a salire quella scala piuttosto traballante. Era stata sincera, almeno così m’era parsa e, se non lo era stata…beh, aveva interpretato una parte da oscar. La scala scricchiolava ad ogni passo che facevo e più m’avvicinavo a quella porticina socchiusa e più saliva la tensione, una volta raggiunto il mezzanino, mi fermai e, prendendo un ampio respiro, appoggiai la mano sulla maniglia.
Avevo paura, il muscolo cardiaco pulsava freneticamente e l’adrenalina aveva cominciato andare in circolo portando le difese al massimo. Con una spinta energica spalancai la porta emettendo un grido di carica. All’interno, una luce di una lampada a stelo, posizionata nell’angolo più lontano, emanava una luce azzurrognola dando all’ambiente un’atmosfera artificiale. Mi sembrava d’essere entrato in ambulatorio medico. Provai un mancamento quando, seduta su un divanetto rosso, una bimba dai ricci neri come la notte, voltandosi verso di me, cominciò a fissarmi con aria timorosa.
- E tu chi sei? – dissi con un tono di voce piuttosto perentorio, come se quella bimbetta di settte o al massimo otto anni potesse essere un pericolo per la mia incolumità. Lei, di contro, guardandomi con attenzione, scattò in piedi e con passo agile si diresse verso un mobiletto appoggiato alla parete che aveva di fronte e da un cassetto estrasse una piccola pistola. Trasalii.
- No. Ferma…Non sono qui per farti del male…Vedi non sono armato. Ti prego, metti giù quell’arma, prima che qualcuno si faccia male – cercai d’argomentare con sicurezza e, per ribadire meglio le mie intenzioni non belligeranti, mi misi in ginocchio per dimostrare il mio intento di pace. Impugnava l’arma con entrambe le mani, era evidente che qualcuno gliel’aveva insegnato e questo particolare mi preoccupò ulteriormente perché significava che era incline all’uso delle armi.
- Senti, non fare sciocchezze…Io mi chiamo Franco e tu…- improvvisai stando in quella posizione scomoda e usando una voce remissiva. I suoi occhi, verdissimi, mi scrutavano senza vergogna e l’espressioni del viso ne appoggiavano l’azione. Sembrava cercasse in me quel particolare che potesse convincerla a fidarsi…
- Capisci l’italiano? – buttai a voce possente senza vergogna. A quella domanda le sue iridi, stranamente, si rimpicciolirono e la bocca assunse una lieve increspatura. Compresi dal quel particolare che l’italiano non fosse la sua lingua madre, con lentezza mi rimisi in piedi e cercai di fare qualche passo verso di lei.
- Stop…Stop – ribatté lei movendo la pistola che aveva in mano.
- Da…da…da..- imprecai animatamente con un tono assai convincente. Portando le mani lungo il corpo cercai di restare calmo, ma la situazione appariva più complessa di quanto già non fosse…Chi era quella bimba e perché si trovava in quel luogo da sola…Inoltre, cosa aveva a che fare con quelle persone…Quesiti che mi ponevo mentre la guardavo con oculatezza per individuare un suo punto debole. Il problema era la lingua. Come potevo farle comprendere che le mie intenzioni era tutt’altro che ostili, che non ero lì per farle del male, ma che anzi avrei potuto aiutarla essendo adulto. Dovevo in qualche modo conquistare la sua fiducia o, al limite, disarmarla. Cominciai a guardarmi in giro e, voltando il viso verso destra, vidi una bambola appoggiata sulla sedia vicino al sofà. Con prontezza compresi che quell’oggetto ludico poteva diventare un modo per conquistare la sua attenzione, quindi, con naturalezza, volsi lo sguardo proprio verso quel giocattolo, ma non contento, rimarcai quel gesto con la mano a simboleggiare chi fosse. La bimba, a quella mia domanda gestuale, sospirò profondamente come se il suo cuore fosse stato accarezzato da un soffio di gentilezza, il viso improvvisamente si rasserenò, gli occhi ripresero splendore e la presa sull’arma s’allentò…Dovevo battere il ferro finché era caldo.
- Io, Franco…e lei…- e accompagnai la domanda con il gesto della mano e aggiunsi – tu? -.
- Sonia…- e staccò una mano dal calcio del revolver. Avevo finalmente catturato la sua attenzione. E con un sorriso completamente naturale m’incamminai verso la bambola e, raggiuntola, la presi in braccio come si prende un figlio e, mantenendo sempre la calma, mi diressi verso di lei. Tutto pareva procedere per il verso giusto quando, sulla porta, apparve Olga….[ continua ]
 

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