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Francia

A Maria Luisa,

con affettuosa riconoscenza

 

Francia

 

Capelli scuri, seduta alla cattedra, raccolta nel suo grembiule azzurro, sorrideva agli alunni ad ogni inizio lezione. Era la loro insegnante di francese. Trasmetteva la sua naturale eleganza; di una bellezza signorile, riusciva sempre a mettere gli studenti a loro agio. E nel relazionarsi con i ragazzi durante le lezioni, traspariva sempre da lei una forma di rispetto verso quegli alunni che si avviavano alla loro futura vita. Cosa che difficilmente si riscontrava negli altri docenti. Riusciva ad inculcare nei ragazzi quei suoni dolci e aspirati, privi di quelle lettere finali, più suggerite che pronunciate (che formavano la singolare parola deposito).

Lui arrancava con fatica su quei verbi mandati a memoria, su quella grammatica che pesava quanto un mattone e su quelle letture tratte da quel libro dalla copertina triste, dai colori cupi (una riproduzione del dipinto di Maurice Utrillo “Pont Neuf”). Mes nouvelles lectures françaises proponeva un improbabile Monsieur Dupont che, avendo subito il furto dei bagagli, elencava ad un commissario (addirittura!) della Gendarmerie l'elenco dei suoi capi di abbigliamento, biancheria compresa (n° 3 paia di calze e mutande varie).

Nella sua cameretta, aveva appeso una cartina della Francia alla parete, con appuntato un piccolo nastrino tricolore francese. Parigi spiccava, tra quei segni tipografici, scura come un'impronta digitale, staccandosi netta tra i nomi delle strade, delle città e dei fiumi. A scuola, durante l'intervallo, seduto sui gradini d'ingresso, ripensava a quel paese dove i gendarmi indossavano quello strano copricapo, il Képi, un incrocio tra una corta tuba e la visiera di un berretto da baseball che gli ricordava una casseruola capovolta. Poi, mentre aspettava che il suono della campanella lo riconducesse in classe, improvviso come una marea saliva in lui quello strano malessere, un oscuro melanconico disagio che lo faceva piombare d'umore, rendendo grigia l'intera giornata. Si sentiva soffocare, gli mancava l'aria, era un malessere più psicologico che somatico. Provava nausea verso il quotidiano. Quello stato d'animo gli succedeva sovente durante la settimana e non riusciva a farsene una ragione, a darsi una spiegazione.

Una sera, una sua amica aveva tenuto una festa di fine anno scolastico. Tra il caldo afoso e i vari invitati, quasi tutti compagni di classe, c'era anche lui. Si annoiava come sempre a quelle feste. Non aveva una ragazza fissa da fare coppia e le ragazze del gruppo erano già tutte impegnate. Girovagava per la casa, tra la cucina e il salone dove si ballava. La musica faceva vibrare i vetri delle finestre poi, spente le luci, erano iniziati il lenti e il volume si era attenuato. Si era seduto distrattamente su un divano dell'ingresso e aveva raccolto un libro abbandonato sul tavolino di fronte. Nell'angolo, una abat-jour creava una gradevole pozza di luce gialla. Lo aveva sfogliato, dapprima distrattamente, poi la lettura si era fatta più attenta, infine stupito, aveva mormorato tra sé e sé : - ma... questo sono io!

- È di mio padre... - le aveva detto Francesca, in una sua fugace apparizione, portando delle bibite in sala - è di una pizza mostruosa! - ed era subito scomparsa risucchiata dalla festa.

La Nausea, di Jean Paul Sartre, era così entrata a far parte della sua vita. Aveva scoperto che il disagio del protagonista era il suo disagio, srotolato lì, istante dopo istante, pagina dopo pagina, sulla carta stampata.

La scuola era terminata e, con le vacanze estive, si apriva un lungo periodo di pausa. Era riuscito a fatica (dopo innumerevoli discussioni, veri e propri incontri sul Ring) a convincere suo padre - il grande assente - a farsi portare in Francia, da lontani, nonché remoti parenti, dalla leggendaria esistenza. Abitavano a Millau, o nella prima periferia di quella città. La sera, aveva cercato con una lente d'ingrandimento, su quella cartina della Francia, ampia come un accappatoio, quella cittadina e una volta trovata, vi aveva piantato sopra uno spillo con una bandierina rossa.

 

La Fiat cinquecento arrancava sui tornanti in direzione della frontiera. All'interno dell'abitacolo regnava un silenzio cupo. Suo padre aveva altri progetti per le vacanze e quell'imposizione, la visita in Francia, la viveva sfoggiando un vistoso malumore.

Millau, o la sua prima periferia, sapeva di campagna e polvere. Erano stati ospitati da quei lontani parenti che, oltre il lavoro in fabbrica, vivevano dei prodotti della terra. La casa era piccola, disposta su due piani, con un cortile interno dove un grosso albero spingeva verso il cielo la sua chioma. Con la cugina Jacqueline (quasi coetanea) non era riuscito a legare un granché, forse per la reciproca timidezza, oppure per lo scoglio della lingua. La sera, uscendo con lei e i suoi amici, si era ritrovato seduto in un bar tutto alluminio, plastica e formica, dalla poco promettente insegna “Bar Moderne”. Sylvie, una amica di Jacqueline, conversava con lui, usando l'attenzione di una sorella maggiore. Con quel poco di francese appreso (e mentalmente aveva lanciato un messaggio di gratitudine alla sua insegnante di francese) era riuscito ad imbastire un minimo di conversazione con quella ragazza bruna, dai tratti femminili già maturi. E mentre bevevano allegramente le loro bibite, seduti ai tavoli fuori del locale, dei contadini stanchi, pronipoti di Asterix, fumando Gauloise, bevevano Pastis e Richard.

Dopo che avevano pagato le consumazioni, aveva visto Sylvie, prendere il resto, arrotolare le banconote, e infilarle nella scollatura del seno. Quel gesto inusuale, aveva portato alla sua mente i films francesi, il clan dei marsigliesi, con donne di vita che, immerse nel fumo dei bistrot, ripetevano lo stesso gesto.

Poi la breve vacanza era terminata e, lasciata la Francia alle spalle, era rientrato nella sua città. La sera, seduto su una panchina, lungo il corso, guardava passare le rare macchine (erano gli anni sessanta) e un sorriso gli affiorava sul viso quando vedeva scorrere delle vetture dai fari gialli con l'inconfondibile targa francese. Socchiudendo gli occhi, sentiva ancora nelle orecchie il dolce brusio di quella dolce lingua.

 

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