Lo so, me lo avevi detto, niente bastone | Prosa e racconti | Rinaldo Ambrosia | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Lo so, me lo avevi detto, niente bastone

Il display del videoregistratore lampeggia intermittente, sembra un’automobile in panne. Deve essere improvvisamente mancata la corrente, Forse è successo durante il mattino, forse? Magari in quel particolare momento dove, nelle stanze prive della presenza dell’uomo, gli oggetti si animano di vita propria.

Brutta cosa le fratture.

Trascino lentamente il mio piede destro, lo poso delicatamente su un cuscino a terra.

Fitte che salgono dal piede mi rispondono in testa.

E' successo quaranta giorni fa, una caduta improvvisa in montagna. Nulla di grave, uno stupido e banale incidente, ma il disagio è grande.

 

Due settimane dopo, il medico, mi ha tolto il gesso. Ricordo ancora le sue parole, una dopo l'altra.

“È tutto a posto, ora cammini, magari si aiuti con un bastone, ma cammini.”

Uscito dal suo studio mi ero ritrovato in strada con quel fagotto dolorante che è il mio piede. Forse ho amato poco i miei piedi, e in qualche modo loro me lo hanno fatto notare.

Ma davvero gli incidenti del genere, le cadute, succedono per caso?

Avevo preso un taxi per rientrare a casa, lo avevo fatto fermare un po’ prima della mia abitazione, e avevo camminato – una camminata lenta, trascinata, ma pur sempre piacevole dopo i giorni di immobilità- per un breve tratto a piedi sotto l’ombra rassicurante dei portici. Osservavo le vetrine, la gente passeggiare e i colori della città.

In una vetrina di un antiquario, uno di quei negozi dove il passato è ammassato alla rinfusa dalla testimonianza dei suoi oggetti, dove ti sembra di entrare nella storia mi ero fermato a guardare.

All'interno di un vaso in porcellana c'era una quantità di bastoni da passeggio. Senza alcun indugio entrai nel negozio e curiosai tra quegli antichi oggetti. Devo dire che i bastoni da passeggio mi hanno sempre affascinato, mi ricordavano dei singolari personaggi che trasmettevano eleganza e stile. Un anziano signore, dai capelli bianchi, in abito scuro, si avvicinò a me, notò il mio passo claudicante e lo sguardo rivolto ai bastoni; allora, iniziò a mostrarmeli senza alcun indugio, elogiandone di volta in volta le loro qualità.

 

Di quell’uomo, mi colpì la cravatta a farfalla nera, portata sotto le ali del colletto della camicia bianca. Sembrava tratto dal set di un film sul conte Dracula. Il negozio era vuoto e io ero l’unico cliente presente, per cui potei esaminare con tutta la calma necessaria ciò che cercavo. Scartai subito, nella mia scelta, i bastoni più antichi, impreziositi da una vera in argento, ma sottili e fragili. Mi occorreva qualcosa di sobrio (per ogni occasione) ma soprattutto robusto, adatto a sopportare i miei ottanta chili.

Poi, guardando un’applique fissata su una colonna, vidi per puro caso, appoggiati alla colonna, due ombrelli e un bastone scuro con il manico in corno. Sembrava dimenticato lì dal personale. Lo presi, ne saggiai l’impugnatura, lo caricai leggermente con il mio peso, poi provai a fare qualche passo mentre il negoziante mi disse che aveva dei bastoni migliori da propormi, più adatti alla mia persona - ricordo che insistette più volte su questa frase, generando in me un vivo senso d’insofferenza - che quel misero - disse proprio così - e ordinario bastone, era del tutto inadeguato alle mie esigenze, insomma, che lui avrebbe potuto servirmi meglio!

 

Gli domandai il prezzo; trovatolo adeguato, acquistai il bastone e sorreggendomi ad esso mi avviai in strada. Devo dire che detesto le persone insistenti, o quelle che presumono di conoscere i miei bisogni, ma nel caso dell’antiquario, ebbi la strana impressione che facesse fatica a separarsi da quell’oggetto, quasi fosse stato suo o ne avesse conosciuto personalmente il proprietario.

Usai, per un certo periodo di tempo e con piena soddisfazione, quel bastone nei miei quotidiani spostamenti, lo sentii abituale e amico. Poi, come tutti gli oggetti che attorniano la nostra vita, una volta esaurito il loro compito, finì dimenticato in un portaombrelli nell’ingresso della mia abitazione.

 

Un pomeriggio della scorsa settimana, successe un fatto curioso. Da giorni mi ero riproposto di lucidare il bastone che si era opacizzato. Armato di panni e creme avevo iniziato il lavoro di pulitura, quando mi accorsi, durante questa operazione, che il manico ruotava leggermente sulla sua sede. Iniziai a svitarlo e in un attimo me lo ritrovai in mano. Pulendo il foro filettato vidi un sottile foglio di carta al suo interno.

Incuriosito, subito pensai che l’avessero inserito per spessorarne il foro, consentendogli così una più solida presa sulla vite, ma poi osservandolo meglio, mi accorsi che il foglietto era arrotolato.

Con l’aiuto di una pinzetta lo estrassi e con somma cura lo distesi. Era un foglio quadrato con un lato di circa dodici centimetri (due lati erano bordati di rosso). Sembrava vecchio, ingiallito dal tempo, poteva risalire agli anni venti. Vi erano tracciate delle strane linee con un inchiostro violaceo, sembravano delle curve di livello topografiche, ma non si trattava certamente di un frammento di una cartina. L’osservai a lungo senza venire a capo di nessuna conclusione e siccome lo scorrere del tempo mi sollecitava ad altre occupazioni, lo inserii tra le pagine di un dizionario, per appiattirlo e ridistenderlo, e lì lo dimenticai.

 

Solamente oggi pomeriggio, consultando alcuni testi, aprendo il dizionario, quel foglio casualmente è scivolato fuori dalle sue pagine. Immerso come sono nella mia ricerca, mentre sto prendendo appunti, mi accorgo che quello strano disegno si riflette sulla lucida superficie di una bottiglia d’acqua, dando forma ad un curioso disegno.

 

Come un lampo, un pensiero improvviso mi balena alla mente, ma certo, non può trattarsi che di un disegno anamorfico! (Ovvero, quei disegni che per risultare chiari devono essere osservati in una certa prospettiva o con l'ausilio di superfici riflettenti); cerco nella libreria il libro dei disegni anamorfici, sfilo la sottile pellicola specchiante in PVC, l’arrotolo del diametro voluto, la fermo con un elastico, poi posato il cilindro al centro del foglietto vedo che si riflette sulla sua superficie un volto di un uomo barbuto con un buffo copricapo in testa.

 

Ho modo di osservare il disegno completamente a mio agio in tutte le sue parti, noto che il personaggio continua a sorridermi da qualsiasi lato lo osservo. Il tratto del disegno sembra realizzato con una di quelle curiose matite copiative, in uso prima della guerra, per trascrivere in bella copia i registri delle ditte; in quanto a secco, si comportano come naturali matite, offrendo la possibilità di poter cancellare eventuali errori, bagnandole, la grafite si stempera in un colore blu violaceo, del tutto analogo all’inchiostro.

 

Osservo meglio la carta, vedo, guardandola in controluce, la presenza di alcune tracce incolori simili ad uno scritto fatto con un pennino intinto nell’acqua. Avvicino il foglio alla lampada alogena per osservarlo meglio e per effetto del calore vedo apparire delle parole sul disegno. Dunque quello scritto è stato fatto con l’inchiostro simpatico. Non appena tutte le parole, per effetto del calore, prendono forma leggo:

 

Dolce di zia Clara

 

½ litro di latte

3 rossi d’uovo

5 cucchiai di zucchero

5 cucchiaini di fecola

sbattere le uova con lo zucchero, aggiungere i 5 cucchiaini di fecola, versare il latte bollente e mescolare bene, scaldare a fuoco lento per tre minuti, versare in un contenitore, raffreddare e servire in tavola.

 

Una ricetta di cucina, un dolce dunque. È curioso come il destino operi attraverso strane vie per inviarci i suoi messaggi, lo fa sempre con sottile ironia, perché, che ci crediate o meno, io sono diabetico.

 

 

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