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M come Mediterraneo

Davvero lo conosci ancora questo mare?
- il mar bianco di mezzo,
come lo chiamo io che vengo da sud
e lo sto attraversando a fame e sete
insieme ai miei compagni affastellati,
con l'odore della paura e del sale
di notte nel buio.
Com'è diverso dal ricordo d'infanzia,
dal tiepido bacino che ci ha accolto
- io su una sponda e tu sull'altra -
accomunati dai giochi e dalla luce.
Com'è diverso dalle storie che ho letto
di rotte millenarie attraverso i flutti,
di eroi epici guidati dagli dei,
di commercianti avidi ed intrepidi.
Adesso è solo una distesa di solitudine
aspra, spaventosa, pronta a inghiottire
me e i miei compagni sventurati,
che non saremo seppelliti
e non troveremo requie
qui, nei fondali del Mediterraneo.
 
 
 

Il prezzo di quello che perdi è lo stesso di quello che dai.

Ma se una volta.. fosse stata anche solo una volta… una sola volta. In sogno mi fosse arrivato un segnale. Accidenti. Un semplice segnale… Con l’aria di portarmi un amore nuovo. Una novità nel cuore. Io forse non avrei mai pensato di farla finita con questa vita.
E’ difficile spiegare da dove vengano fuori questi gesti. Che se uno ci pensa con calma e cerca di capire non riesce a spiegarselo. Eppure, c’è chi sceglie questa strada. Forse un vecchio veleno del passato, una specie di cancrena nel cuore. Forse non sarebbe mai andato via. Non avrebbe mai voluto se non si fosse sentito solo.
Una volta le disse: accorciati quella gonna, che sembri più vecchia tesoro. Lei sorrise. Quando si ripresentò sembrava una ragazzina e rideva come lui non ricordava da tempo. Era bellissima e aveva quell’aria di chi potrebbe fuggire all’alba dalla porta di servizio e sul bordo del precipizio fuggire sulle orme di Telma e Luise.
Lui lo sapeva. Lei si mosse nella penombra facendo si che la sua siluette proiettasse l’ombra sulla parete e lui seduto sul divano immobile come incantato non le staccava gli occhi da dosso.
Lui che si metteva al sole quando pioveva le avrebbe detto: “amore mio non ti stupire di questo mio cuore che spesso piange l’amore” e forse le parole gli si sarebbero inciampate in bocca preso dalla commozione e poi ancora; “tu sei come una bambolina di porcellana sul divano del salone del castello ed io…. sono sempre stato un bimbo che rompe tutto”.
Ma il prezzo che paghi spesso equivale a quello che hai dato disse mentre estraeva dal nulla una pistola sottile e minuscola. L’appoggiò alla tempia e sorrise. Lo sparo echeggiò nella stanza, sulle scale… l’intero palazzo ne fu avvolto. Lei si inginocchiò davanti a lui piangendo sommessa. I secondi che arrivarono ed io ero tra quelli, vidi i primi davanti alla poltrona inginocchiati per terra vicini a lei che piangeva sommessa. Come davanti alla Pietà lei continuava a ripetere… tu mi hai dato la vita, così me l’hai tolta… non è vero quello che dici… non è vero…
Poi la polizia interruppe la poesia e tutto sembrò identico all’articolo del quotidiano che apparve il giorno dopo… e la gente diceva che pure lei si sarebbe uccisa.
Lei era già indaffarata a pulire la casa che il sogno era finito… un sogno era finito ancor prima di incominciare…

La sensuale danza delle gocce

 
Residui trasparenti
dal mare congedati
sull’ambra della pelle
si lasciano gocciare.
 
Germogli saporiti
la pelle fanno a oca
brivido e piacere
sul corpo somma alcova.
 
E’ danza dell’estate
e a gocce
l’arcuata schiena solcano
impertinenti orme, carezze e desiderio.
 
Morbido è il morso
sul labbro che è proteso
salsedine e languore a sorsi
sul frivolo pensiero.
 
Il mare
si fa presto gioco con il sole
capelli a intrecci d’oro e sale
vista che soddisfa, da bere e d’annusare.
 
Tra i radi fili al miele
cristalli fusi a stille
minute mani sulle gambe
e amata libertà, almeno di sognare.
 
tiziana mignosa
giugno duemilaotto
 

Un giorno, le tue mani.

Avessi le ali
volerei
alla collina
ricoperta d'erba dorata,
per tornare a sorridere
con il mio folle ego.
Ed in questo posto lacrimabile,
forse troverei alcune delle risposte
di cui sento il bisogno,
o delle semplici distrazioni.
 
Le mille venature delle tue mani
mi potranno un giorno
indicare il sentiero per la felicità.
 

L' Indaco di Kevin

YGROS

Un velo indaco
Mi avvolge la testa
Un sudario di pensieri
E fuggo dall’inferno blu
Nel tiepido
Inferno nero-bile
Della Melancolia.
Klo1980, 27/07/2009  

 

 

 

 

  
L’Indaco di Kevin
 
Il problema di Kevin non era l’autismo, non la sua indecifrabile genialità, nè la stanchezza frammista ad ansia che lo affliggevano sin da quando era nato.
 
Forse il problema di un Kevin normale, sarebbe potuto essere il nome, Kevin Roncacci. Roba da farsi prendere per il culo da tutti i perfidi coetanei quindicenni. A quindici anni o si è geni o tonti o sterili perfidi implumi ragazzotti cinici quanto basta per far chiudere ancora di più Kevin nel suo scrigno dorato. (a volte non implumi…)
 
Il problema del Kevin che non conosceva il normale invece, il macigno che l’affliggeva, era il dono ingestibile dell’amplificazione percettiva dei sensi, era l’innescarsi di sinestesie continue, ma non lineari e prevedibili come per chiunque si fosse mai cimentato nell'esercizio dei sensi.
 
Lui da anni conosceva bene il temine ed il suo significato, ormai se lo ripeteva a memoria quotidianamente (era un atteggiamento un poco autistico in effetti) : “Sinestesia, termine che normalmente indica situazioni in cui una normale stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Nella forma più blanda, questa particolarità è  presente in molti individui. E facile infatti pensare a situazioni frequenti  in cui il contatto o la presenza di un odore o di un sapore evoca immediatamente un'altra reazione sensoriale. Quante volte la vista della frutta è percepita anche come sapore?. Questo è spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri”.
 
Il fatto era che lui di questi eventi sensoriali spesso ne aveva tre o quattro simultanei. 
 
E non solo.
 
Kevin sentiva i racconti del buio nella notte.
 
Percepiva l’odore delle urla.

Un soffio d'aria

Ho le mani appoggiate sul cuscino.
Mi sfiorano i capelli.
Ho gli occhi chiusi, è notte fonda,
fa caldo.
Un leggero soffio di aria fredda
si posa sulle mie mani, le circonda,
s’infiltra tra le dita..
Rimango immobile.
Trattengo il respiro per un attimo.
Poi, leggermente, le muovo.
Le stringo a pugno, poi le riapro
allargando le dita.
Con piccoli movimenti le sposto
sul cuscino.
Gioco con il soffio d’aria fredda.
Un piccolo sorriso appare
sulle mie labbra.
Mi sento un po’ stupida
a stringere un soffio d’aria
fra le mani, eppure.
Non penso a niente.
Con le dita passeggio sul cuscino.
Mi tocco i capelli.
Il soffio d’aria segue i miei movimenti.
La finestra è chiusa.
E’ sempre rimasta chiusa

Il verso nella credenza

16 -17 - 18

Così andando per i conci col trionfo della calma
era ad un volo sulla gente
come in planata fanno i grandi alati
sorretti da un piglio di correnti
sulle ferme cupole e sui gesti da passeggio.

Attraversò il dubbio d’ogni sera:
fermarsi all’affacciata di terrazza a berla
o rinnovare l’entrata nella notte come persa?
Al giorno non si chiede quel chiarore
che la camicia avanza al colletto aperto.
Il petto incavo disfatto, un bottone
caduco, la peluria come foresta alla finestra.

C’erano donne in giro, si sarebbe detto,
per ogni cosa ferma ai tavoli dei bar.
Ogni minuto chiuso nei numeri più in voga,
quelli dei posti o dei martini, era un tesoro
di dialogo e promessa. Tutti seduti a fare gli orbi
o tutt'in piedi a provocare un flirt.

19 - 20 - 21

La doppia faccia quale occasione d’ombra
in cui riporre rabbia o delusione, per ciò rimase.
Non generava gesti: gli stavano addosso in processione
così da quando parlò piangendo
a quando pensò ridendo, ma non li vide.
Non vedeva ancora adesso che gli occhi,
ah! quegli occhi stretti come accuse,
gli davano visioni spesse, però di rado.

Guardava ciò che sapeva vedere:
il bicchiere, la bussola, la padella,
l’ora. I suoi occhi poi, gli occhi di lei
che aspettava al varco della strada
dove la frusta nera ha un manico di sedie
e il marciapiede, la rotonda della piazza piena.

Quella lei che non fu così donna
prima che lui la vedesse sciogliersi i capelli:
neri, proprio neri come un neo di vento
in cielo. Quella lei che a sedersi lì
non c’era ma lasciava sempre un’attesa
che raccoglieva. “In fine viene,” si disse,
e preparò il vaso di parole perché fiorisse dentro.

 
 
Piess: la numerazione è indicativa di un progetto più ampio che va formandosi qui.

Il silenzio del tempo

Scandiva il tempo l'orologio muto
rimasto a guardare la notte
appeso ad una parete bianca.
Le lancette libere si impegnavano
in rincorse folli dietro alle stelle
mentre un quarto di luna impigrita
stentava a bucare la coltre del buio.
 
Attendevo i suoi argentei chiarori
ma la luna sparì come inghiottita
e mille stelle fugaci saettarono
inseguite da lancette ebbre di gioia.
Presago di mutamenti improvvisi 
come lupo solitario alla finestra
ululai alla luna la mia solitudine.
 
L’orologio muto scandiva il silenzio.
 

Io come sto?

<< Io come sto?>>
E dovrei anche darti una risposta, non lo vedi da te come sto! Sto qui e basta.
E poi scusa, come hai fatto a vedermi? Sei l'unico sai. Sono anni ormai che mi aggiro per queste stanze, incontro persone che mi passano accanto e non mi vedono per niente. Non sentono i miei richiami. Io parlo, parlo ma nessuno mi ascolta, nessuno che si degni darmi una risposta, un saluto. Mi sento alla stregua di un mobile sempre pronto all'uso o l'uomo ombra, che dico invisibile, trasparente, un'alieno insomma.
Invece sono sempre io ma allo stesso tempo non lo sono.
Guardo, sento, ascolto, anche se rispondo a un quesito che in quel momento viene posto da qualcuno a me vicino, la mia voce non ha consistenza, non arriva da nessuna parte, nessun orecchio la percepisce.
So cosa pensi, ti chiedi cosa faccio ancora qui, ecco me lo chiedo anch'io e finalmente ho capito che questa non è più aria per me perciò è meglio che tolga il disturbo e scompaia forse, dopo, starò meglio.

A Lilith Rosa Malinche

Ho la lingua e il culo del caprone, quello che si bacia nei sabba.
Sono la poltiglia dei secoli che ha metabolizzato bestemmie, sputi e cadaveri.

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