Gabriele
Prignano


Racconti

FIORI E COLTELLI

Ho una spina enorme, nel cuore e nel cervello: lui, il mio ex. E’ cattivo, ottuso, ignorante. Per me, ormai, la storia è finita. E da tempo. Ma lui insiste. Non si rassegna. Cerca anche di spaventarmi.
“ Non puoi piantarmi così. “ dice “ Lo capisci? Non sono mica un pupazzo. E non mi faccio trattare così da nessuno. Lo sai, no? “
Insomma, ripeto, non molla, vuole spuntarla lui, coi soliti modi, naturalmente. E continua a perseguitarmi, implacabile. Farlo secco, allora, non si farebbe un soldo di danno, perché è un delinquente nato. Ed è, appunto, quanto sogno. Almeno si chiuderebbe un capitolo. Il peggiore della mia vita.
Male, però, non riuscirei mai a farne, anche volendolo, non perché non lo desideri, ma semplicemente perché non ne sono capace. Rabbrividisco a pensarci. Qualcosa, però, tocca pur fare per uscire fuori. E qualcosa ho già fatto, ecco.
Siamo fatte tutte così, noialtre donne: o dentro o fuori. Peccato, però, che fuori, troppo spesso, in un modo o in un altro, sono sempre loro, alla fine, a sbatterci.
L’ho incontrato qualche giorno fa per caso. Solita aria, solito ghigno, solita spocchia. Ma chi crede di essere?
E mi sono detta:
“ Lo scarico. Ora o mai più. “ E lui ha detto:
“ Che fai? “ ha detto “ Mi scarichi? Pensaci bene, eh! Mi conosci, no? ”
“ Ci ho pensato. “ gli ho detto.
“ E allora? “
“ E’ una cosa mia. Riguarda me. Tu non c’entri. Non comandi. E non devi permetterti di ficcare il naso nei miei affari, mai più. Chiaro? “
“ In che senso? ”
“ Decido io. “
“ E cioè? “
“ Penserò a tutto io. “
“ Te sola? “
“ Mi tocca. ”
“ A me, invece, che tocca? ”
“ Questo. “ gli ho detto.
E gli ho tirato un calcio, ma forte, come volevo, insomma. Brutto gesto, lo so. Forse non dovevo. Eravamo in strada e la gente ci guardava. Guardava me, con disprezzo. E lui con pietà.
Lo vedi, allora, com’è la vita? Un gesto sbagliato e la situazione si capovolge. Comprensione e simpatia per lui. Per un delinquente, cioè. Per un egoista. E per me, invece, solo schifo. Ma che ne sa la gente, mi dico, di quello che è successo, prima? Perché chiacchiera, perché odia me, che sono la vittima?
E però - penso - me ne sono liberata, grazie a Dio. E mi basta. Ne sono felice, anche se lo so che ne pagherò le conseguenze. Delle occhiate scandalizzate della gente me ne frego, sia chiaro. Nessuno, ripeto, sa cos’è successo tra me e lui. E perciò non mi lamento.
E’ vero: l’ho scaricato brutalmente e senza tentennamenti. Soprattutto senza rimorsi, né pudore, né pentimenti. E questo basta, perché così doveva essere.
Finalmente si respira, continuo a ripetermi. E lo so, perché non sono scema, che poteva anche reagire, anche strangolarmi, persino stritolarmi. E’ forte. E’ violento, so anche questo. L’ho fatto, però, non solo perché ho riflettuto, ma anche d’istinto, perché ne ho subite troppe. Sorbirsi un tipo come lui per ben quattro anni, non è uno scherzo. Poche ci riuscirebbero, ci giurerei. Leccarlo e inghiottirlo come un gelato al cianuro. Dico quattro. Chi, dico, avrebbe resistito al mio posto?
Uno che pensa solo a se stesso, che a quarant’anni si sogna il calcetto anche di giorno, che nemmeno col binocolo si accorge se hai mal di pancia, o se hai la schiena a pezzi o se c’è qualcosa che fa contorcere il tuo viso per un dolore insopportabile, si chiama forse uomo, questo? E’ degno di chiamarsi uomo, dico?
Lo so benissimo, però, che è anche colpa mia. Non nascondo nulla, no. Lo so, ripeto. Nessuno deve spiegarmelo. Mai più mi offrirò disarmata, non dico al nemico, ma nemmeno agli amici più cari. Nemmeno ad un amore vero, sincero.
Ho sbagliato, da stupida incallita, per quattro tenere, stupidissime parole. Gli ho ceduto. Mi fossi almeno fatta pregare, macchè! Maledetto quel giorno. Ce l’ho ancora qui davanti agli occhi. Una mano dove voleva lui. E io zitta. “Prego, si accomodi”. Poi la carezza. “Ma faccia con comodo, per carità. Desidera altro?” Poi l’abbraccio. Poi il bacio. E poi, ovviamente, il resto. E, cioè, tutto quello che lui voleva, tutto ciò che mi restava. Tutto gli ho dato, col sorriso sulle labbra. Come a ringraziarlo. Come fosse lui a farmi la grazia.
Non mi sono fatta mai pregare. Anzi. Mi andava, certo, ma gli ho anche creduto. Felice di sentirmi dire: ti amo. Ti amo, mi ripeteva. E intanto acchiappava, incartava e portava via. Ti amo! E’ l’espressione che, ora, purtroppo, odio più di ogni altra cosa al mondo. Ti amo, ti desidero, ti voglio. E cioè: prendo e scappo via, va bene?
No, no, un momento, di nuovo sbaglio. Qualcosa, infatti, mi ha lasciato: piedi, braccia, testa. E posso ancora dirmi fortunata, credo. Avrebbe potuto anche ammazzarmi e buttarmi via in un cassonetto. Se ne leggono sui giornali di storie simili, no?
Ripeto, però, il mio gesto non è stato bello. E non lo farò mai più. Anche se se l’è meritato per intero, diciamocelo.
Tutto nero? No, questo mai. Morto un Papa, se ne fa un altro, dicono. A suo tempo. Senza fretta. Non dico uno come Aldo, però. Lui mai più. E nemmeno tanto presto. Fretta non ne ho, anzi. Ora ho ben altro per la testa. E non c’è più posto nel mio cuore per nessuno, per niente. L’unico angolino libero è già occupato. Non c’è spazio, ripeto.
Ho un gran sogno, dentro. Un bambino che cresce nella tua pancia, lo senti muoversi, agitarsi, bussare. Bello e brutto nello stesso tempo. Ma necessario perché possa sopravvivere. Che sarebbe di me, chi sarei, che farei senza quel bimbo nella pancia?
E’ anche suo figlio, purtroppo. Non lo chiamo più per nome. Voglio dimenticare anche il suo volto. Lo chiamo “lui”, nei momenti migliori . “Bestia”, quando mi rode. E, per la verità, mi rode sempre, ma solo quando vedo lui o quando penso a lui.
Lui si fa ancora sentire, di tanto in tanto e malgrado tutto. Manda fiori, che odorano di tradimento, di falsità, di malizia. E io li lascio tutti nel cassonetto, all’angolo della strada. Li adagio, per la verità. Anche se sono nata disgraziata, praticamente sulla strada, un minimo di delicatezza ce l’ho. Nemmeno li guardo, però. E’ più forte di me. Mi fa senso. Anzi schifo. Mi viene da vomitare, ecco!
Pentito lui? Per carità! Manco morta ci crederei. Non è il tipo, lui. Da bravo cristiano, non chiede che il perdono. E cioè: dimentichiamo il passato. Una bella croce sopra e si ricomincia da zero. Come non fosse mai successo niente. Gli basta, credo. Si vive meglio se ci si sgrava di qualche peso, no? E’ successo anche a mia madre quando mi ha lasciato sola. Un bigliettino semplice semplice: “Non posso tenerti con me. Perdonami.”
Perché? Affari suoi.
E così anche lui, ora. Coi fiori - ma quando mai si
è ricordato, prima, di offrirmi anche solo una margherita? –
Praticamente è come dicesse:
“ Potresti anche accontentarti, no? Che altro pretendi? Informati: costano un occhio, sai? ”
E invece niente!
Me ne strafrego di lui, dei suoi fiori, del suo denaro. Ci sputo su. E non esagero. E se, poi, il mondo non ha ancora perduto significato ai miei occhi, devo dire grazie solo alla mia pancia, motivo del mio dolore, ma anche ragione della mia vita.
I miei amici dicono che sono fissata. Anzi picchiata. Più sbrigativa, un’amica dice che mi sono rimbambita. Al mio posto lei lo avrebbe già preso per il petto, buttato giù dalla finestra e sarebbe scesa giù e gli sarebbe salito addosso, coi piedi e gli avrebbe gridato in faccia mille volte che fa schifo. Sempre una soddisfazione è, no?
Non la penso così, io. La bestia ha il diritto di essere quello che è, perché non può essere diversa da quello che è e nemmeno mi interessa chiederglielo, nemmeno lo voglio, ora.
E, invece, continuo a pensare al tesoro che custodisco nella mia pancia. Già è una fortuna che lui non sia tornato sulla proposta dell’aborto. Decide la donna, non lui. E, cioè, io. E stavolta l’accecherei, giuro. Due dita negli occhi. E’ mio e me lo tengo. E continuo a farmi la doccia tre volte al giorno. Shampoo al midollo di bue. Fard. Leocrema intensiva, perché voglio essere bella, quando sarò mamma. Bellissima. Voglio accogliere mio figlio tra braccia tenere e profumate. Coccolarlo. Baciarlo. Stringermelo al petto. Me lo voglio meritare, insomma. E voglio essere bella anche oggi, domani, sempre. Mettere la minigonna, perché ho belle gambe e per quale motivo dovrei nasconderle, poi? A chi dà fastidio? Chi mi dà una mano? Chi si interessa di me?
Mica ci si invecchia, avessi anche cinquanta anni, col pancione davanti. Anzi. Piaccio a me stessa e piaccio anche agli altri. Qua le prove. Mi vengono dietro, per strada. Mi mangiano con gli occhi. Mi acchiapperebbero subito al volo, solo se ricambiassi il loro sorriso. E ciò malgrado il pancione. Basta, no?
Bè, purtroppo, la brutta sorpresa è arrivata. Mi sono vista dietro, improvvisamente, anche lui, in strada. Non me l’aspettavo. Che vuole? Che cerca? Ecco: comincia subito ad andarci giù senza delicatezza.
“ Pensa a quello che stai facendo. “ mi dice. E ho captato la minaccia. Non mi fa paura, però. “ Stai rovinando tutto. “
Io?
Ha anche aggiunto, stringendo i denti:
“ Hai il cervellino di una gallina. Non vuoi capire. “
E ha anche detto:
“ Puttana! Lo so che sei una puttana.“
Si sarà ingelosito, credo. Avrà pensato chissà a cosa, ma a me non importa. Non penso più a lui. Penso ad altro. Anzi sogno, ad occhi aperti.
Stamattina, per esempio, mi sono svegliata pensando che qualcosa accadrà. Di grande, di importante, di straordinario. Una sorpresa, insomma.
E perché, mi sono detta, non dovrebbe accadere proprio oggi che è una giornata straordinaria, il giorno più importante della mia vita, la mia festa
Oggi compio ventidue anni e hanno bussato alla porta, ho guardato attraverso lo spioncino. E, purtroppo, - altro che sorpresa! - ho visto quello che non avrei mai voluto vedere: lui!
“ Non apro. “ ho gridato. Né ora né mai. “
E lui ha gridato:
“ E invece apri. Subito. ”
Non ha avuto paura che qualcuno lo sentisse e, magari, potesse intervenire, anche perché si sa bene, ormai, che ognuno bada a sé, ai fatti propri. E, allora, ho urlato:
“ No.“ ho urlato. E poi ho anche visto la sua faccia per intero attraverso lo spioncino. I fiori in una mano e un coltello nell’altra.
Sono corsa al telefono e ho chiamato aiuto. Abito, però, ad un piano rialzato e ho paura e corro a chiudere tutte le finestre e penso che la bestia è davvero una bestia, è agile, è forte, è fuori di sé. Non ragiona, ammesso che abbia mai ragionato in vita sua.
Sono ancora al telefono e vedo il suo viso affacciarsi dietro i vetri della finestra.
Non scherza, è chiaro. Fra poco entrerà in casa. Ripeto: coi fiori e col coltello. E, francamente, ho paura, non certo per me. Solo per quel bimbo che urla nella mia pancia. E allora corro a prendere un coltello anch’io.