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Clovis

 

 

Scendeva lentamente lungo il sentiero. Dal tavolo del bar dove ero seduto riuscivo a vedere la sua figura che si stagliava nitida contro la pineta. Camminava con passi cadenzati, senza interruzioni, con l’andamento tipico di chi in montagna vive da sempre. Attraversò la piccola piazza. Sentii i suoi scarponi risuonare sulla piccola rampa di scale che portava al bar; poi entrò. Era un uomo anziano, poteva avere sessant’anni come settanta. Sembrava che il tempo su di lui avesse rinunciato al suo lento lavoro di usura.

Un cappello di feltro, indurito e sbiadito dal sole. Due occhi scuri, osservavano attorno a sé con ironia. Sul suo volto facevano bella mostra un paio di folti baffi grigi e un pizzo alla moschettiera.

Salutò con giovialità la padrona del locale togliendosi il cappello. Si scambiarono alcune parole in patois, lui assentì più volte con il capo, pronunciò un sonoro “oi!”, poi si sedette al tavolo di fianco al mio. La padrona posò sul suo tavolo un bicchiere e mezzo litro di vino rosso, poi si spostò in cucina.

Lui riempì con calma il bicchiere e lentamente iniziò a bere. Eravamo soli nel locale, lo osservai incuriosito, colse il mio sguardo e sorrise, alzò il bicchiere esclamando un fragoroso “salute!”.

Non ci rivolgemmo altre parole, continuò a sorseggiare il suo vino silenzioso guardando distrattamente il panorama che si scorgeva dalla finestra. Mi alzai e uscii salutandolo; lui a sua volta nel salutarmi sollevò il suo cappello.

Scesi verso il paese. Dovevo acquistare dell’attrezzatura per l’escursione che avevo in programma per il giorno dopo. Lungo la strada, al fondo valle, la catena del monte Rosa appariva nitida e luminosa, scintillando sotto il sole.

Ritornai alla borgata solamente nel tardo pomeriggio. Il bar era avvolto da una penombra invitante; entrando, lasciai riposare per un istante i miei occhi colpiti dall’intensa luce solare. Chiesi alla padrona notizie di quell’uomo. Venni così a sapere il suo nome; si chiamava Clovis. Riparava e ricopriva i tetti delle baite con le “lose”, lavorando di valle in valle, spostandosi dovunque fosse richiesta la sua opera.

La sua vita era ammantata da una triste storia legata al periodo della sua gioventù. Era emigrato per lavoro all’estero, lasciando ad attenderlo in valle una giovane donna. Entrambi innamorati, sognavano un futuro matrimonio consolidato da una sicurezza economica derivante da questa grande opportunità di lavoro.

I genitori della ragazza, per motivi di interesse, obbligarono la loro figlia a sposare un commerciante del paese che aveva manifestato delle mire su di lei. Fu un matrimonio non corrisposto e disperato. Ebbero un figlio che morì a un anno di vita. Il marito per lenire il dolore iniziò a bere, divenne litigioso e scaricò la sua rabbia su di lei.

Iniziò a picchiarla, lei sempre più chiusa in sé stessa si consumò nel dolore e nel rimpianto. Morì di crepacuore, per una vita di segregazione.

Quando Clovis rientrò in paese, lei era già morta da un anno; l’intera vicenda lo sconvolse al punto tale che lo si vedeva camminare nei pressi del cimitero, mormorando tra le labbra parole come se stesse parlando con un’immaginaria presenza.

Poi un giorno scomparve dal paese, si ebbero solo più vaghe e sporadiche notizie sul suo conto, sino a quando, vent’anni dopo, ritornò.

Mentre scendeva la sera; la padrona mi preparò la cena nella saletta attigua alla sala da pranzo. Cenai con il pensiero fisso sulla storia che avevo appena ascoltato. Dopo cena tornai a sedermi al tavolino di fronte al bar. Stavo bevendo una grappa quando sentii un rumore di passi sulla scala esterna.

Capii, dalla cadenza di quei passi, che lui era lì. Entrò, salutando come di consueto la padrona, poi mi guardò e fece un lieve cenno del capo. Lo invitai al mio tavolo e gli offrii da bere.

Ordinò una grappa, portando il bicchiere alle labbra proferì un augurio al mio indirizzo dicendo: “prosit!”.

Gli chiesi: “come va?”, temendo di disturbare il suo silenzio, ma nel contempo provando un profondo senso di curiosità nei suoi confronti.

E fu proprio un lungo silenzio che lui fece seguire alla mia domanda. Poi come se rispondesse ad un suo lontano pensiero scandì alcune parole, ma le pronunciò talmente sottovoce che dovetti farmele ripetere, disse:

La vita è come una nave...”

Come?”

La vita è come una nave... si ferma ad ogni porto; scendono e salgono dei passeggeri, poi la nave riparte”, si accese un mozzicone di sigaro, soffiò fuori il fumo, poi pacato proseguì:

Un bel giorno anche la nave si ferma e va in disarmo.”

Lo guardai con viva curiosità, ma il suo sguardo era fisso su un angolo del muro. Il silenzio ci avvolgeva completamente. Si era fatto tardi, la padrona stava chiudendo. Uscimmo e ci ritrovammo sulla piazza. Il rumore della fontana sembrava amplificato dal silenzio della notte. Clovis mi precedette di qualche passo, lo raggiunsi, camminavamo nel riquadro d’ombra che il campanile proiettava a terra. Si fermò, sollevò lo sguardo, fissò a lungo il cielo stellato, poi guardandomi, disse:

Ora lei è lì, tra noi due c’è di mezzo una vita non vissuta. Presto sarò da lei per sempre”. Sollevò il cappello, in segno di saluto, poi lo vidi scomparire nel buio della notte.

 

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