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La lignenga

 

 

 

a Michele, con qualche acino d'uva bianca...

 

 

Era il mese di settembre del '44 e la guerra incombeva pesante. Michele guardava, incantato, la bocca aperta e il naso all'insù, le nubi che formavano fantastici disegni nel cielo. Forse a sera sarebbe piovuto. E con la pioggia non sarebbe potuto salire, dopo cena, sul monte a guardare i bombardamenti su Torino.

La guerra incalzava con il suo carico di privazioni e morte ma, immerso nel suo mondo fantastico che solamente quell'età dona, le privazioni venivano accettate come una normale consuetudine del vivere quotidiano. Bastava poco per sorridere, giocare con il fratello o la sorella, rincorrere le avventure dei personaggi del Corriere dei Piccoli. C'era Pier Lambicchi con l'arcivernice che, come un soffio, risolveva tutto. Il brigante Barbariccia, Capitan Cocoricò e la Tordella, con quel mattarello sempre in mano e i due pestiferi frugoletti, Bibì e Bibò. Completavano il quadro Arcibaldo, Petronilla e il signor Bonaventura, con il suo bassotto che assomigliava più a una salsiccia che ad un vero cane.

Le sere con la luna, eludendo la sorveglianza della zia, con i suoi fratelli, Michele saliva le pendici del monte S. Giorgio. In lontananza, al suono delle sirene, si sovrapponevano le luci delle batterie fotoelettriche che aravano il cielo in cerca dei bombardieri. Scorgevano i loro profili, li sentivano avvicinarsi con l'inconfondibile cupo brontolio dei loro motori, poi un rumore sordo solcava il cielo. Vedevano i primi sbuffi della contraerea punteggiare il cielo.

Poi il nemico sganciava il suo carico di morte e le prime caramelle, cadendo, fischiavano, tagliando l'aria: un susseguirsi di esplosioni, un inferno di bagliori e di fiamme che salivano dalla città.

Tornavano a casa mesti e nel contempo affascinati da quel tragico spettacolo fumante.

Michele, un istante prima di prendere sonno fantasticava, immerso in un'atmosfera ovattata, di sospensione, nel suo piccolo mondo che gli vorticava attorno.

Erano immagini che si rincorrevano...

Pensava alla trottola di legno che girava nel cortile. Faceva a gara con gli amici a chi riusciva a farla ruotare, mantenendola in equilibrio più a lungo. Il segreto consisteva nell'avvolgere la corda in modo regolare e nel dargli quell'effetto, quello strattone che, srotolandola, le imprimeva forza, durata e stabilità.

Solo Mario, tra i compagni di gioco, riusciva quasi sempre a vincere. Doveva esserci un trucco, quasi sicuramente... Michele dubitava che anche la corda contenesse qualche segreto...

Poi la sua fantasia dai giochi lo trasportava alle riunioni del catechismo. Un pomeriggio il parroco aveva sfilato dalla tonaca, quella dai mille bottoni, uno spesso portafoglio di cuoio, aveva sfogliato tra le carte e aveva distribuito ad ognuno di loro un santino. «Questo è l'Arcangelo Michele, quello di cui tu porti il nome», gli aveva detto, sorridendo. Michele aveva osservato quella riproduzione litografica dai tenui colori.

L'Arcangelo, bardato di elmo e corazza, brandiva una spada e stava per colpire il maligno che teneva schiacciato sotto il tallone del piede destro. Il diavolo era raffigurato come una creatura dal tronco informe, un essere con tanto di corna su un volto contratto da una smorfia che sembrava un ghigno. Al posto dei piedi aveva gli zoccoli come i caproni, mentre una coda di serpente si arrotolava nel vuoto. Michele era affascinato da quella figura disgraziata, uno sgorbio sporco di fuliggine, a metà tra uomo e caprone. Forse all'artista era sfuggita un po' la mano. Dell'Arcangelo poi manco parlarne. Bello, paludato nella sua armatura, irraggiungibile, come il Podestà, il Farmacista e il Maresciallo dei Carabinieri che, a volte, incrociava in strada e che lo intimorivano sempre, anche quando gli sorridevano.

Poi l'immagine cambiava di nuovo, ecco apparire la zia; erano in cucina, sul tavolo dal ripiano di marmo, quello dove preparava la pasta alla domenica.

Lui stava ritagliando il contorno delle figurine del Corriere dei Piccoli, per incollarle su un sottile cartoncino. Avrebbe poi ripiegato la piccola aletta bianca che faceva da piedistallo. Le sagome dei bersaglieri, dei ciclisti, dei soldatini in divisa coloniale, prendevano lentamente forma sotto le lame delle forbici e delle sue mani attente. Gli piaceva quel buffo copricapo in tela e sughero che indossavano le truppe destinate all'Africa Orientale Italiana. Gli faceva venire in mente immagini di esploratori, di selvaggi e foreste. E le pagine di Salgari prendevano vita con i loro eroi.

Avanti tigrotti della Malesia...”

Ma nuovamente l'immagine cambiava registro, sfarfallava, mentre lui scivolava verso un vuoto informe, verso il sonno più profondo... La zia stava mescolando dentro un pentolino, con un cucchiaio scarso di farina, della colla. Lui e i suo fratello, con i fogli della Domenica del Corriere, preparavano i sacchetti per foderare i pochi grappoli d'uva, di lignenga, lasciati a maturare sulla topia, in cortile, davanti al portone di casa. Così le vespe non li avrebbero divorati. A novembre, li avrebbero poi raccolti e messi a dimora in un cassetto aperto, per mangiarli la notte di capodanno, in quella cena, scarsa di cibo, come i tempi portavano ma con la gioia di ritrovarsi uniti attorno ad un tavolo e con la speranza di un futuro sereno che, prima o poi, sarebbe giunto.

 

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