Andare e riandare | Lingua italiana | Fausto Raso | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Andare e riandare

 Un nostro amico ci ha chiamato in causa in quanto l’insegnante di suo figlio, liceale, ha sottolineato con la fatidica matita blu la frase “rianderò con la memoria gli anni della mia infanzia”, che il ragazzo aveva riportato, appunto, in un tema. Che cosa rispondere a quest’insegnante? Dirgli “si aggiorni!” ci sembra improprio perché non si tratta di “essere aggiornati”, ma di conoscere i vari usi e le varie norme grammaticali che regolano il verbo andare, e la frase incriminata (a parere del professore) rispetta in pieno, invece, gli usi e le norme; lo studente non ha commesso, insomma, alcun errore linguistico-grammaticale. Vediamo, quindi, la “storia” del verbo andare che molto spesso crea perplessità e problemi – come abbiamo visto – agli stessi docenti.

Andare, dunque, appartiene alla schiera dei così detti verbi irregolari perché nel corso della coniugazione cambia il tema “and” in “vad”; il primo gli è proprio, nel senso che gli appartiene; il secondo è tratto dal verbo latino “vadere” e si coniuga con l’ausiliare essere. Il futuro e il condizionale (andrò, andrei) sono le forme sincopate  delle voci “regolari” anderò e anderei. Queste ultime non sono affatto errate – come sostengono alcune grammatiche – sebbene sia meglio lasciarle alla lingua parlata e alle composizioni poetiche. È tremendamente errato, invece, l’accento che alcuni mettono sulla terza persona singolare del presente indicativo: egli và. Una legge grammaticale stabilisce, infatti, che i monosillabi composti con una consonante e una vocale non debbono essere accentati (eccetto qualche caso particolare): va (senza accento).

E veniamo al composto “riandare”, causa del “contenzioso” tra l’insegnante e lo studente, con “vittoria” di quest’ultimo. È superfluo ricordare il fatto che il verbo in questione è formato con il prefisso “ri-”, indicante la ripetizione dell’azione, e con il verbo “andare”. Ciò che è importante conoscere, invece, è il fatto che detto verbo può essere sia transitivo sia intransitivo e può seguire e la coniugazione regolare e quella irregolare (io rivado, io riando). Naturalmente secondo precise norme. È intransitivo e coniugato con la forma irregolare quando significa “andare di nuovo”, “ritornare in un luogo”: rivado a Parigi; sono riandato a Parigi. È transitivo e coniugato secondo la forma regolare (sempre il tema “and”) quando ha il significato di “ripercorrere con la memoria”, “tornare con la mente sulle cose passate”: gli anziani riandano i casi della loro vita. Lo studente, quindi, ha ripercorso con la memoria la sua infanzia. Bene. E con trasandare, gentile professore, come la mettiamo? Secondo lei la forma corretta è “io trasvado” essendo un composto di andare? Ma non diciamolo neanche per ischerzo! Trasandare è regolarissimo: io trasando, tu trasandi, essi trasandano. E sempre a proposito del verbo andare, è bene fare alcune considerazioni al fine di adoperarlo sempre correttamente. Andare, dunque, significa, in senso generico, “spostarsi”, “andare da un luogo a un altro” e può voler dire, di volta in volta, “camminare”, “recarsi”, “dirigersi” e molto spesso è contrapposto a venire. Bene. Nei casi specifici ci sembra “più opportuno” dal punto di vista prettamente linguistico-grammaticale adoperare il verbo… specifico in luogo del “tuttofare” andare. Diremo, quindi, che Giulia “si è recata” a scuola invece della forma poco ortodossa “è andata”. Così come diremo che Luigi  “è partito” per Venezia in luogo della forma “popolana” “è andato”. Ma questa, forse, è solo una nostra pedanteria.

È  adoperato correttamente, invece, in alcune locuzioni particolari; anzi, in alcuni casi il verbo andare dà un tocco di classe ai nostri scritti. “Andare per le lunghe”, infatti, è meglio che “procedere molto lentamente”, “indugiare troppo”. Concludendo: il verbo andare è indispensabile per la formazione dei così detti modi di dire come, per esempio, “andare a genio”, vale a dire soddisfare, piacere.

 
Fausto Raso

 

 

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