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Tradito

“Continui a fumare come un turco. Chissà come hai fatto a resistere senza sigarette in mezzo alla boscaglia.”
E’ sempre lei, cristo santo. Non è cambiata, la voce bassa e decisa, il naso dritto in mezzo all’ovale puro, gli zigomi alti come quelli delle dive del cinema americano, e gli occhi, dio, me li sognavo tutte le notti questi occhi verdeazzurro, glauchi diceva il Professore quando gli mostravo la fotografia ciancicata che tengo ancora nel portafoglio.
Vorrei stringerla fino a levarle il fiato, ho pensato a questo momento per mesi mentre cacciavo tedeschi come da bambino cacciavo i fagiani con mio padre. E mi dicevo che lo facevo anche per lei, cristo, per darle la libertà e una casa e pane fresco tutti i giorni e un letto vero.
Ed è lei, è sempre lei, la mia Irene bella come le dive, ma non è più lei, e non è più mia.
“Paolo dice di andare a trovarlo, che vuole vederti, che ti perdona perché ti capisce”, sta dicendo.
E a me sale di nuovo in gola tutta la furia che credevo di aver sfogato spaccandogli il naso, a quel sant’uomo di Paolo. Al vigliacco che ha preferito nascondersi sotto la sottana della mia donna e poi non è riuscito a resistere, povero, e gli è venuto da scivolare anche dentro la mia donna, oh, scusa, mi dispiace, sai, ma eravamo così soli e spaventati e tu eri sparito in montagna e allora…
“Quello non capisce un beneamato”, ringhio. “Quello che avevo da dirgli gliel’ho detto, non ho altro da aggiungere. Io coi vigliacchi parlo solo così, le parole non servono.”
E allora è lei, ma mia Irene, che si fa venire gli occhi da tigre, due fessure gelide, insostenibili, che mi hanno sempre fatto più paura dei crucchi, più paura del rombo delle contraeree, più paura delle spolette delle bombe a mano quando le lanciavo contro le camionette di quei bastardi in fuga. E questa voce che si abbassa ancora e diventa sibilo rauco e ancora, ancora mi dà brividi che non so sbrogliare e non so se siano più di voglia o di che altro.
“Non hai mai saputo distinguere i tuoi sogni da eroe dalla realtà vera, Gianni. Mai. Mai. Sei tu che non capisci un beneamato. Ma che vita credi fosse quella lontano dalle tue montagne? Credi che andassimo a ballare tutte le sere? Che mangiassimo gnocchi e arrosto a pranzo e cena? Che dormissimo sereni col canto dei grilli in sottofondo? Io mi alzavo alle quattro per andare a comprare un decilitro di latte e Paolo si picchiava con quelli della borsa nera per strappare un po’ di carne da bollire perché Pietrino non morisse di fame, una medicina perché mia madre non s’ammazzasse per l’asma. E dov’eri, tu? Dove? A combattere la tua battaglia mentre qui crollava tutto, tutto spariva e moriva…”
“La battaglia la combattevo per te. Non era la mia.”
Irene si alza spostando la sedia di ferro dal tavolino e qualcuno si volta a guardarci mentre la tazzina del suo caffè e il mio bicchiere di vino tremano forte.
“La battaglia che ho combattuto io, invece, era solo mia. La combattevo per restare viva. E Paolo era lì, con me, a cercare di restare vivo anche lui. Due mezzi morti che hanno messo insieme le loro mezze vite per cercare di farne una intera. Riesci a capirlo?! Riesci a capirlo?! Riesci a…”
E’ così bella con le spalle squassate dai singhiozzi e quegli occhi rabbiosi illimpiditi dalle lacrime.
E ora posso alzarmi e stringerla come avrei voluto fare tornado dalle Cascine, come facevo prima dell’8 settembre.
E’ tiepida, ha il profumo che conosco, i capelli neri mi accarezzano la faccia come sempre ma lei resta inerte tra le mie braccia.
E adesso riesco a capire davvero che non sono lei e Paolo ad avermi tradito ma questa guerra infame, i crucchi, il nostro duce e il nostro re, come recita la canzone.
 
 

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