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Sono un ragazzo squillo

Sono un ragazzo squillo,
figlio cromosomico
di un’ammucchiata
fra Giuseppe Piero Grillo
(in arte Beppe)
e Trampa Donalda,
giamaicana bernarda,
incrocio fra un wasp
e una stallona ribalda.
 
Sono un ragazzo trillo,
un brivido, fra il Krakatoa
e il Terminillo.
Officio il culto della Grande Bellezza,
fra un singulto di cirenaica, corinzia,
sibaritica crapulinzia
e un’affascinata vaghezza
(must, cult)
per la Nutella del Nulla,
terzomillennia.
 
Son un ragazzo brillo,
da nicotina disintossicato,
m’abbondantemente compenso
con brunch domenicale di carne di nipotina,
fra Palo Alto e Santa Catalina.
Storie di ordinaria narcoscorreggia.
 
Sono un ragazzo ligio
al dover-essere
in un mondo bigio,
fra bosonici paradossi,
salvinici e renziani Mattei;
nutrendomi di Trote Bossi,
postpropilei di décadence berlusconiana,
prostatici cedimenti
di appenninica faglia,
saudade di boom testosteronici
Cinquanta-Ottanta.
 
Sono un ragazzo figlio,
- figlio, figlio, figlio,
amoroso giglio -,
lisergico sacrificio
dell’incrocio famiglio
fra plebi retiche e gallo-padane.
Di froci, puttane, pornostar
e casalinghe depresse
amorevole frate confessore.
Di tal bestiario nutro il mio immaginario
d’ultracinquantenne porco.
intellettuale pseudostilnovistico;
che si aggira fra un oviesse
d’ovvietà quotidiane
e una teoresi kenòtica,
putrefacentesi cosmesi
di carne, neuroni
e nevrastenica diurési.
 
Al pixel m’appiglio,
all’inchiostro,
all’igienica carta,
per un arrastro, tutto benedettino,
di ipersemiosi; nella scleròsi
di tardo impero barbarico,
latinoeurarabico,
dissociato fra umma e gumma.
 
In questo autunno di vita
ho un progetto:
meditazione sul cadavere (asubhā),
sull’impermanente batterico mandala:
presenziare all’estinguersi
di Aqualung, del fu Occidente il figlio.
 

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