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Lo sgabello

L'ultimo viaggio di Ada *** durò poco più di un quarto d'ora. Uscì di casa intorno alle 10 di mattina, andò fino alla fermata dell'autobus e attese. Era ottobre inoltrato eppure il clima era ancora mite. Nonostante questo indossava un piumino lungo fino alle ginocchia, un cardigan di lana e un paio di pantaloni felpati. Lei aveva comunque freddo.
A differenza del giorno prima, quando aveva compiuto la stessa liturgia di azioni, questa volta portò con sé uno sgabello di legno. Era quello del soggiorno, su cui di solito posava i piedi mentre guardava la televisione o leggeva un libro, per poi addormentarsi, di notte, di mattina o di pomeriggio: non faceva del sonno una questione di orari. Dormiva spesso, quando ne aveva voglia. Non lavorava e non aveva figli; la sua condizione economica le evitava qualunque tipo di preoccupazioni, grazie a un lascito ereditario, alcuni immobili e investimenti finanziari, che le fruttava una rendita mensile più che decorosa.
Il pullman arrivò puntuale. Era raro che ci fossero ritardi sulla tratta che univa la manciata di paesi sparsi sulla vallata, dove viveva, con la città: in quelle zone il traffico non era un problema a cui gli abitanti dovessero interessarsi.
Le porte si aprirono, lei salì, salutò l'autista che conosceva di vista e andò verso il fondo del veicolo, con lo sgabello sotto al braccio. L'autobus era simile a quelli utilizzati per i lunghi viaggi, con coppie di sedili imbottiti disposti su due file e un corridoio centrale. Si sedette vicino al finestrino e posò lo sgabello accanto a lei, sul sedile vuoto. Partirono. Osservò distrattamente il paesaggio che scorreva, un orizzonte a lei noto composto da boscaglia e tornanti. Uno strato di foglie ricopriva l'asfalto. Tutto questo andò avanti per una decina di minuti. L'autista fece altre due fermate, salirono tre persone in tutto ma rimasero nei primi posti, non si accorsero di Ada e del suo sgabello. Poi arrivò la città e le prime case, i dissuasori del traffico che la facevano sobbalzare ogni volta che l'autobus li superava, i semafori e la frenesia della mattina. Salì altra gente. Una ragazza sui vent'anni che parlava al cellulare a voce alta si andò a posizionare dietro di lei. Era presa da una conversazione che aveva a che fare con l'assegnazione di una borsa di studio e la conseguente possibilità di andare per un anno all'estero. Il suo interlocutore non sembrava felice della prospettiva e per questo discutevano con animosità. Sono venuto a conoscenza di questo dettaglio dai passeggeri con cui ho parlato in seguito. Non è una questione marginale come potrebbe apparire poiché la reazione di Ada in seguito fu anomala e permise ai presenti di accorgersi di lei, fino a quel momento passata inosservata. Accadde questo: senza alzarsi iniziò a lamentarsi della maleducazione della sua vicina e del suo tono di voce troppo alto. Lo fece prima in modo sommesso per poi agitarsi sempre di più, fino quasi a gridare qualcosa in modo isterico. Qualcosa che somigliava a uno stai zitta, stai zitta, stai zitta.
Tutti sono stati concordi nel dirmi che la ragazza, a quel punto, turbata dalla reazione della donna, chiuse la telefonata, troncando il discorso. Ne seguì un silenzio imbarazzato anche da parte degli altri passeggeri. Purtroppo non sono riuscito a rintracciare la giovane. Avrei voluto chiederle se, dalla sua visuale, aveva poi guardato meglio chi che le aveva urlato quelle parole, come è ipotizzabile. Avrei voluto sapere se c'era qualcosa nel suo aspetto che rivelasse qualcosa dei gesti che avrebbe compiuto da lì a poco. Gli altri passeggeri non sanno dirmi nulla in merito poiché, pur voltandosi per capire che stesse succedendo, lei rimase seduta, per cui la sua visuale era ostruita dagli schienali. Anche quando arrivò la sua fermata non poterono prestarle attenzione: uscì dalla porta posteriore, quindi l'unica testimone della sua fisicità resta la ragazza del cellulare.
Dopo esser scesa dall'autobus proseguì a piedi per poco più di cinquecento metri, esattamente come aveva fatto il giorno prima. Arrivò al ponte che univa la città alla superstrada e lo percorse fino a metà, fino al punto in cui le campate raggiungevano l'altezza maggiore rispetto al suolo. A differenza del giorno prima collocò lo sgabello di fronte al parapetto e ci salì sopra. In quel modo l'ostacolo delle barriere protettive non rappresentò più un problema, come invece aveva fatto nel suo tentativo precedente. Per qualche motivo sconosciuto si levò la giacca e le scarpe, poi si buttò di sotto.
Quando ho ascoltato per la prima volta la storia di Ada, la sua lucidità nel ripercorrere per due giorni di fila la strada che l'avrebbe condotta al termine della sua esistenza, nel rendersi conto di cosa le mancava – lo sgabello – per portare a compimento la propria urgenza, qualcosa nel mio sentire è stato toccato e a mia volta sono stato colto da un'urgenza: quella di ricostruire prima e raccontare poi, gli eventi ultimi della sua vita. L'etimologia della parola “commuovere” significa “mettere in movimento, agitare”. In questo senso Ada, ma più di tutto il suo sgabello, un oggetto quotidiano, a lei famigliare ma insieme estraneo al mondo quanto l'esistenza della sua proprietaria, che le ha fatto da lapide e simbolo di tutta la disperazione che l'ha portata a trovare qualcosa di peggiore della morte dentro alla sua stessa vita, mi ha commosso. Mi ha fatto agitare le dita sui tasti nel tentativo di trasferire la sensazione di totale sconforto, la sua, che è diventata anche mia nel momento in cui l'ho immaginata non tanto lanciarsi nel vuoto quanto tornare a casa, il giorno prima, e cercare con perizia tra la sua mobilia un elemento adatto agli scopi che si era prefissata, qualcosa di abbastanza alto ma al tempo stesso non troppo ingombrante, facilmente trasportabile, che le permettesse di scavalcare le barriere del ponte. Mi sono chiesto se, nell'individuare nello sgabello la sostanza perfetta per la sua intenzione, se ne sia rallegrata, come chiunque riesca a trovare rimedio a un problema (e non ho ragione di dubitare del fatto che in parte possa essere andata anche in questo modo); oppure se sia rimasta indifferente, avvolta in un qualche grado di torpore psichico, come presumo siano gli individui che hanno deciso di togliersi la vita, un gesto che necessita di un alto grado di astrazione e dissociazione; oppure se la sua tristezza sia aumentata nell'attimo in cui ha compreso che pure la disposizione del mondo, in quel momento, le offriva la possibilità di volersi del male, regalandole un'ostia avvelenata, una comunione maligna con la parte di noi che cerca la distruzione, l'annientamento, la prostrazione e lo facesse sotto la forma innocua di un poggiapiedi. Non sono credente, penso che dopo la morte non ci sia nulla, ho la convinzione che non esista il male in quanto entità ma soltanto la sua manifestazione in atti che traducono il dolore intimo di ciascuno di noi. Ada ha creato dolore, che del male è sinonimo, dopo che il dolore si era impossessato di lei, vincendola. Di questo dolore, tanto forte da commuovermi pure a distanza, per sentito dire, ormai lo sgabello sarà posseduto per sempre e ricorderà agli amici e ai parenti della donna tutta la sua tragedia personale. Come una statua innalzata a un demone sconosciuto.
 

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