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Una storia di Lavaggiorosso

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Eravamo seduti sui gradini della chiesa, un pomeriggio d’aprile. A me piaceva sedermi lì, un po’ in disparte rispetto alla gente del paese. Loro stavano sulle panchine, al fresco dei due unici alberi della piazza, a parlare delle rare novità della giornata. Io, che frequentavo da poco quei luoghi, mi mettevo in disparte. Non mi sentivo ancora di appartenere alla comunità. Ma su quegli scalini si stava comunque bene. C’era una bella aria e tranquillità. Quando mi potevo permettere qualche minuto di riposo, era lì che andavo a sedermi.
A un certo punto Giovanni era venuto a sedersi accanto a me. Si era staccato dal gruppo delle donne ed era venuto da me. Ci conoscevamo da poco, ma si vede che gli ero simpatico, perché mi parlava volentieri. Era attraverso di lui che cominciavo a conoscere il paese e le sue storie. Lui conosceva la mia famiglia, soprattutto i miei zii, per via della comune passione per la caccia. Quindi mi parlava come se dovessi conoscere tutte le persone e i luoghi. Ma il suo dialetto era piacevole, arguto.
A un certo punto è venuto a piazzarsi davanti a noi un turista tedesco e si è messo a fotografare la lapide commemorativa di don Toso.
- Chissà se lo sa, che sono stati loro – mi è venuto di dire, a mo’ di battuta.
Giovanni mi ha dato un’occhiata, serio come sempre.
- Me lo ricordo bene, quando sono arrivati. Avevo undici anni, all’epoca.
Erano saliti su da Levanto, dopo l’8 settembre. Che strane le date. Ce ne sono certe che segnano una generazione. La mia ha l’11 di settembre da ricordare, la sua l’8. Tre giorni di differenza e quasi cinquanta anni. E storie completamente diverse. Quella di Giovanni inizia con suo padre di fronte ai tedeschi. Una scelta secca: o lavori per noi o ti spediamo in Germania. Fortunato, suo padre. Lui aveva i muli. Gli altri, quelli che non avevano nulla da barattare, partivano senza poter scegliere. Ma i muli erano merce preziosa e così il padre di Giovanni si era ritrovato a lavorare per i tedeschi. E presto questi si erano accorti che non aveva solo le bestie, ma anche una cantina. Così venivano di soppiatto a bersi un bicchiere di vino, quando potevano. E parlavano. Anche il loro comandante faceva una capatina di tanto in tanto. Davide aveva imparato a conoscerli. Senza mai superare il confine dettato dalle circostanze. Quel tanto che bastava per capirne caratteri e debolezze. Per farsi un’idea di quel comandante che, forse, in circostanze diverse non sarebbe stato una cattiva persona.
Poi era successa la questione del prete. L’avevano preso gli Alpini della Monterosa, di ritorno da una visita a certi parenti a Sestri Levante. Li aveva incontrati sulla strada della Baracca, al “Colletto”, e si era messo a parlare con loro. Qualche domanda, buttata lì con noncuranza, giusto per scambiare due chiacchiere. Troppo, per quei tempi duri e sospettosi. Stava già andando via, quando il comandante diede l’ordine di fermarlo. Poteva essere una spia dei partigiani.
Giovanni mi ha guardato a lungo, con gli occhi fiammeggianti a illuminare le rughe scolpite dal sole. Se lo ricordava bene, anche se era solo un ragazzo. Lui e un altro ragazzo, suo coetaneo, servivano alla messa, erano i chierichetti di Don Toso. Grande uomo, con cui si poteva parlare.
Erano stati giorni frenetici. L’arresto di un prete non era cosa da poco, anche a quei tempi. Si era mosso il Vescovo, a Spezia, il Prefetto e tanta altra gente. Gli alpini spostavano il prigioniero continuamente, per paura di qualche tentativo di liberarlo. Il padre di Giovanni continuava a servire i suoi padroni tedeschi in silenzio. Ma quando il loro comandante era capitato alla cantina, si era sbilanciato:
- Ma non si può fare niente per quest’uomo? In fondo ha solo fatto qualche domanda, senza alcuna intenzione.
- Non so. Lo tengono i vostri Alpini – aveva risposto il tedesco. Poi aveva fatto un cenno, come a dire che ci avrebbe pensato.
Il tenente colonello Pozzo, comandante degli Alpini era una persona dura, dai metodi spicci, non facile da prendere. Aveva una fama di inflessibile, che non lasciava presagire nulla di buono.
C’era stato un estenuante tira e molla, in cui si accavallavano le notizie, ora volte a un barlume di speranza, ora invece nere come la pece. Il comandante Tedesco era tornato da Davide. Ma non l’aveva voluto vedere alla cantina, Era salito in casa, aveva chiuso accuratamente la porta e solo allora gli aveva detto:
- Caro Davide, stai attento, ben attento a farmi ancora richieste come questa.
Lo guardava serio, trasmettendogli tutta la sua preoccupazione.
- Domani potresti esserci tu, a fare compagnia al prete.
Arrivò infine il 12 di agosto. La popolazione di Lavaggiorosso fu costretta ad ammassarsi sulla minuscola piazza. Dopo la messa, presero il parroco e lo misero davanti al muro. Gli Alpini scelti per il plotone si piazzarono all’altezza degli alberi. Dietro di loro, con il colpo in canna, altrettanti tedeschi. Perché questa è la logica della guerra: o spari tu o c’è chi spara a te. Logica semplice e feroce, che non lascia scampo. Che ti costringe a fare quello che non avresti mai fatto, se avessi potuto scegliere. Che ti lascia dentro tutto l’orrore per ciò che hai fatto. E il rimpianto di quello che non hai avuto il coraggio di fare. Non ci meravigliamo se poi qualcuno è tornato a casa con le rotelle non del tutto a posto.
La cerimonia era andata avanti, implacabile. Gli ordini secchi, il rumore metallico dei fucili, le esplosioni. Il rumore si era sparso per la valle, come un lugubre velo. L’aveva sentito anche il messo mandato di gran carriera da Levanto, a portare l’ordine di sospensione dell’esecuzione emesso dal Prefetto di La Spezia. L’aveva sentito mentre passava per la Lizza e aveva capito di essere arrivato troppo tardi.
Fa impressione sentire quella storia da un signore di più di ottanta anni, sapere che lui l’ha vissuta con gli occhi e la mente di un bambino. Sento sulla pelle il brivido della tradizione orale, che conserva la memoria attraverso un ponte fragile di parole. Ora sono io a possedere questo piccolo tesoro, questa storia viva, che nessun libro di scuola potrà mai rendere in tutta la sua umanità.
Ma Giovanni non ha ancora finito. Va avanti a parlare, sempre con lo stesso tono pacato, confidenziale eppure duro, che non ammette dubbi sull’autenticità del racconto.
- La gente piangeva di fronte al corpo crivellato di colpi. Poi lo hanno preso e lo hanno portato in chiesa, per comporlo nella bara. Allora gli Alpini hanno chiamato me e il mio compagno, quello che serviva messa con me. Ci hanno portato davanti al muro, proprio nel punto dove poco prima stava don Toso.
Io ero come sospeso, incapace di reagire. Sotto le sue parole le scene si componevano, nitide eppure così assurde. Era come assistere a un film, ma a regole invertite: quello che vedevo, attraverso il racconto di Giovanni, era la realtà, ma così dura da accettare che desideravo strenuamente che fosse solo un film.
- Ci hanno dato un piccolo secchio di stagno e ci hanno ordinato di raccogliere i brandelli di carne che si erano infilati nelle fessure del muro, fra le pietre.
Allunga il braccio ossuto verso il muro e con le mani mima il lavoro che avevano fatto. Vedo le piccole dita di bambino frugare fra pietra e pietra, raccogliendo frustoli di carne imbevuti di sangue. Come è possibile riuscire a fare una cosa come questa? Come si fa a vivere, dopo?
La luce scolpisce la sua faccia di cuoio. Non c’è traccia di smarrimento, di dolore. Lui non se lo era domandato. L’ha fatto, e basta.
 
(questo testoè la migliore trascrizione di quanto ricordo del suo racconto; può darsi che contenga errori, o che io abbia a volte compreso male. In ogni caso, è così che lo ricordo)

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