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Woody Allen - Misteri pagani di Manhattan

di Alessandro De Caro

 

 

Ieri sera al cinema d'essai ho portato la mia nipotina tredicenne a vedere un film un po' “impegnativo”, Manhattan di Woody Allen. Si è divertita molto, e alla fine ha detto: “Ma si parla un sacco di libri in questo film!” L'avrò visto almeno tre volte e non ci avevo fatto molto caso...Si tratta del film più letterario di Allen? E ciò non tanto per via della presenza di Muriel Hemingway, nipote dello scrittore, quanto per come il libro, in ogni sua forma, gira tra le scene e attraversa tutto il film. Come una piccola “lettera rubata” (Edgar Poe), allora, bisognerà sfogliare Manhattan per rivederlo, ancora una volta, attraverso la patina avvolgente della sua scrittura, così importante nel definire una poetica d’autore.

Strindberg o Freud?

Inizia il film. Voce fuori campo: “Capitolo primo. Adorava New York. La idolatrava smisuratamente - Uh, no, facciamo così: “Egli la mitizzava smisuratamente. Ecco...per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava con i grandiosi motivi di George Gershwin”. - Ah, ricominciamo da capo...”

Fin dall'inizio siamo nel libro, tra le immagini che nascono nella mente di uno scrittore (dunque un attimo prima di vederle) e, nello stesso tempo, ci troviamo all'interno del film così come si presenta ai nostri occhi: in bianco e nero e con le musiche, inequivocabili, di Gershwin. E' un procedimento letterario chiamato dai francesi (sembra che il primo a usare il termine sia stato Andrè Gide) mise en abyme: il racconto speculare, come l’ha chiamato lo studioso Lucien Dallenbach, nel quale l'opera riflette su sé stessa, offrendosi per l'appunto come realtà e come riflesso. Le prime scene di Manhattan giocano tutte su questo piano duplice, sfalsato, provocando un gioco parola/immagine molto accattivante. Siamo davvero al cinema, quello di sempre, oppure stiamo leggendo un libro? Nessun remake, nessun "adattamento", come si dice in gergo. Giusto un libro che si apre. che si scrive..Come mai questa familiarità che dovrebbe mettere a disagio, poiché intacca la purezza cinematografica con un ritorno indietro, tra le “rovine” della letteratura? Mi chiedo se nel corso del film la riflessività così ostentata all'inizio viene mantenuta, oppure viene sacrificata alla storia.

Devo dire che, a mio parere, la presenza del testo domina buona parte del film. A cercare bene in Manhattan non ci sarebbe tutto un testo frammentario, disposto negli angoli o nelle giunture degli eventi? Nel ristorante Elaine’s, comunque, Ike annuncia ai suoi amici (Yale, Emily e Tracey) che la sua ex-moglie (Jill) sta scrivendo un libro sul loro matrimonio e sulla rottura. Dov'è collocata questa scena? Non sarà già una scena descritta nel libro di cui si sta parlando, dunque un flashback? Chi scrive questa storia, Ike oppure Jill (Meryl Streep)? Nessuno se lo chiede, forse, mentre altre metamorfosi del libro si susseguono nelle sequenze successive. Mentre Ike e Yale (Michael Murphy) passeggiano insieme, lasciando indietro le loro compagne, Ike confessa che “Quando si parla delle relazioni con le donne, io sono il vincitore del premio August Strindberg”. Nel film, in realtà, sentiamo pronunciare il nome di Sigmund Freud anziché di Strindberg per ovvi motivi, temo, di notorietà; la sceneggiatura mostra la cultura letteraria di Allen, molto più raffinata di quanto non si possa credere. E' una piccola rivincita che mi prendo sulla totalitaria “cultura di massa”. E poi, Strindberg sarebbe stato più pertinente: lui le isteriche non le analizzava per lavoro, le doveva sopportare giorno per giorno.

 

Pedagogia kafkiana

Molti film di Woody Allen orbitano, come si sa, intorno ai rapporti di coppia; qui però il rapporto tra Yale e Tracey è più complesso, anche perchè lei ha diciassette anni e lui quarantadue: “Sto con una ragazza che fa i compiti e il cui padre è più piccolo di me!” esclama durante la cena Ike. Il filo rosso del Bildungsroman, del romanzo di formazione, sembrerebbe essere un'altra marca letteraria del film; verso la fine, infatti, un po' come un Wilhem Meister in ritardo sui tempi, Ike si rende conto che tutti i suoi dubbi sulla giovane età di Tracey sono il frutto di un'educazione piena di pregiudizi, forse di rimorsi, e che non c'è nulla di meglio del “volto di Tracey”. Questo volto viene ritrovato soltanto alla fine, e chiude l'opera dopo aver funzionato, in un certo senso, come la petite phrase di Proust. In uno dei suoi romanzi più belli, secondo alcuni il suo capolavoro, L'immortalità, Milan Kundera affronta il tema del volto femminile in una scena che vede protagonisti Agnes e Paul. Lei gli dice: “Sì, tu mi conosci per il mio viso, tu mi conosci come viso e non mi hai mai conosciuto diversamente. Non poteva neanche sfiorarti l'idea che io non sono il mio viso”. Alla domanda di Paul: “Come sarebbe, non sei il tuo viso? Chi c'è dietro al tuo viso?” Agnes risponde con una storia che mi sembra riscattare tutte le amanti incomprese, giovani e vecchie: “Immagina di vivere in un mondo dove non ci sono specchi. Il tuo viso lo sogneresti e lo immagineresti come un riflesso esterno di quello che hai dentro di te. E poi, a quarant'anni, qualcuno per la prima volta in vita tua ti presenta uno speccho. Immagina lo sgomento! Vedresti un viso del tutto estraneo. E sapresti con chiarezza quello che ora non riesci a comprendere: tu non sei il tuo viso”. D'altra parte, neppure le pur sublimi tirate da intellettuale di Mary (Diane Keaton) possono allontanare davvero l'immagine della giovinezza non ancora sfigurata dai problemi esistenziali (e dal fantasma dell'eterno psicanalista). Mary o del narcisismo, Jill o del risentimento; per chi ha visto il film, diventa presto chiaro che Tracey è l'unica donna che non possiamo collegare ad un sentimento di fallimento, di decadenza e di egoismo. Sarà un elogio delle ninfe? Fanciulle di vent'anni, avete tutto un mondo di letterati che vi aspettano...L'autobiografia scritta da Jill esce e fa un gran rumore. Durante una gita, gli amici di Ike ne leggono qualche passo ad alta voce: “Era soggetto ad accessi d'ira, paranoia giudaico-liberale, maschilismo, misantropia mitomane e manie nichiliste di disperazione. Continuamente si lagnava della vita ma non era mai in grado di trovare una soluzione. Spasimava per essere un artista, ma si sottraeva a ogni sacrificio necessario per diventarlo. Nei momenti di maggiore intimità parlava della sua paura della morte che lo elevava a un'enfasi tragica che di fatto era mero narcisismo”.

Capisci, potrei parlarti tutta la notte del mio libro...”

La lunga passeggiata di Mary e Ike per le vie di Manhattan, a tarda notte, è un pezzo da antologia. In queste scene famose Ike rivela di voler scrivere un libro, interrompendo le sue attività per la televisione. E' una classica contrapposizione che per certi italiani profumerà tutto sommato di eresia, tra il mondo dello spettacolo e le attività dello spirito: un'idea decisamente francese, magari tedesca visto che qualche tempo fa Enzensberger, per superare il trauma, scrisse una superba parodia di Goethe proprio per la televisione tedesca. D'altra parte, nel mitico elenco dei motivi per sopravvivere di Woody Allen, oltre al volto di Tracey e ai fratelli Marx, c'è l'Educazione sentimentale di Flaubert, un romanzo che non lesina colpi contro il mitico mondo degli amanti. Anche qui, tutto è rappresentazione: “Capitolo primo...”

 

Versione rivista il 08/11/2010

 

 

 
 
 
 
 ©Alessandro De Caro
 
Giornalista culturale, si interessa da diversi anni di progetti inerenti la letteratura e la musica contemporanea. Ha scritto su riviste letterarie come In-edito, Alchimie, Torino Sera e su alcune testate musicali. Collabora ai contenuti di siti come Books Brothers, Imperfetta Ellisse, Paper Street, Finzioni occidentali.  
 

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