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La maschera, strumento di tramite con le divinità - Enrico Borla ed Ennio Foppiani

<< La maschera fu nella storia dell’umanità da sempre. Essa rispose all’esigenza dell’uomo di realizzare simulacri di dèi e spiriti a propria immagine e somiglianza, mantenendo tuttavia, fra il proprio volto e quello della divinità, quella distanza necessaria affinché la rappresentazione rimanesse solo rappresentazione mimetica, conservando il suo carattere di sacralità e non diventasse, da parte dell’uomo, un tentativo di imitazione, un sacrilegio. La maschera fu il veicolo di comunicazione necessario per mediare l’emozione in luoghi dove si inscenò l’estrema violenza, l’orrore, l’angoscia, la numinosità; situazioni che sarebbero intollerabili se non vi fosse stata una distanza che offrisse, tanto all’interprete quanto allo spettatore, il mezzo di controllare l’eccesso di verità nella mimesi scenica trasformando l’emozione in arte.
La maschera consentì di creare una comunicazione tra il mondo degli uomini e quello degli dèi; l’uomo tramite la maschera diede un volto al Dio e lo rese “fisico”. Negli antichi riti la maschera fu per questo lo strumento di tramite con le divinità, con le forme dell’universo perché, nascondendo il volto umano, consentì, a chi la indossava, di assumere l’immagine, la forza e la potenza degli dèi. Ma tutto ciò semplicemente perché la coscienza dell’uomo sorse dalla maschera che il proprio io rappresentava rispetto alla totalità (l’inconscio) che si percepiva soggiacente.
Già nell’antica Grecia la parola “pròsopeion” (πρόςοπειον) che designava l’oggetto che noi chiamiamo maschera, veniva usata raramente perché in sua vece era solitamente impiegato il termine “pròsopon ” (πρόςοπον): ciò che ogni persona mostra agli occhi altrui, specchio della vita interiore, rivelatore di sentimenti, di pensieri, estremo modo per ognuno di affacciarsi al mondo, perché il volto è la maschera.
Da “pròsopon” derivò, infatti, il termine latino “persona” con cui si definiva l’identità che appare di ciascuno. In questo senso il volto-maschera cerimoniale fu la vera espressione della personalità di ciascuno, un’identità che coprendo il viso permise all’individuo di assumere su di sé le sacre caratteristiche del Sé, senza per questo operare un inganno.
L’identità originale sotto la maschera è velata ma non perduta, anzi è l’essenza stessa della maschera. La maschera sacra non nasconde e non falsifica la persona presentandone solo il lato sociale, ma piuttosto, attingendo dall’inconscio, rivela nelle pieghe dei suoi tratti ciò che ancora non è conosciuto, dà un volto all’anima.
Coprendo, nascondendo, interponendosi tra l’individuo ed il mondo, la maschera permette di esporsi senza sentirsi esposti e di liberare i propri impulsi in una condizione di anonimia. Perché è proprio restando ignoti che si può trovare l’oggettività del racconto: infatti, il presentarsi dietro la maschera permette di sentirsi come se si fosse parte della propria storia guardandosi dall’esterno ed è da ciò che nasce la coscienza.
La maschera chiamata Io è ciò che, celando e velando la realtà, rende allo stesso tempo possibili altri reali che precedentemente non erano ancora, aprendo così la porta al mistero e al non ancora conosciuto. Tutto ciò avviene nel momento in cui la maschera Io nel mondo contemporaneo ha perso il valore sacro di rappresentazione del dio che impregna l’umana essenza, quella che alcuni chiamano inconscio, per divenire al contrario travestimento profano, smarrendo così il valore di verità. Tutto ciò è accaduto in modo macroscopico negli ultimi cinquecento anni in cui la maschera è scivolata dai misteri medioevali al teatro d’arte, poi si è ristretta ai carnevali ed infine con sordo tonfo è precipitata nelle feste mondane, divenendo quello strumento di falsificazione che ormai è l’apparire al mondo in questi tempi di inconsapevole totalità.>>
 
(Enrico Borla, Ennio Foppiani, “Losfeld. La terra del Dio che danza”, Bergamo, Moretti&Vitali, 2005 pp. 110-12)
 

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