Scritto da © maria teresa morry - Mar, 08/05/2012 - 23:28
Ricordarsi di te è ripercorrere una lunga malattia. La peggiore, ossia quella che veniva chiamata “ di mente”. Chi erano , fino a cinquant’ anni fa , i malati di mente? Forse oggi persone che verrebbero ritenute appena appena “spostati” , “ strambi”…ma al tempo degli ospedali psichiatrici, dei manicomi chiusi, era diverso. Ci si entrava molto facilmente! E i medici, allora, potevano anche attestare la “ pericolosità” sociale di un individuo. Una marchiatura a fuoco per tutta la vita.
Tu cominciasti ad ammalarti da ragazzo. Sempre molto nervoso, polemico; avevi scatti di nervi che tua madre non capiva. Ricordo come guardavi un punto fisso,con le iridi chiare , ferme come pietre dure, su cose che vedevi solo tu e diventavi livido in volto. Fumavi sempre, in continuazione, una Nazionale via l’altra, avevi forse vent’anni, credo. In poco tempo la nicotina ti segnò le dita scarne sino all’attaccatura del palmo. Prendesti l’abitudine di fumare in camera tua, e l’aria lì era ammorbante. Dormivi la notte, dentro al tuo fumo , poichè proibivi che qualcuno aprisse le finestre della camera. Una camera che s’affacciava su di una calle, quindi senza luce per gran parte del giorno. Ti ricordo con i capelli biondi sempre ispidi e ritti; nei momenti della tua silenziosa disperazione, ficcavi dentro le mani nei capelli ed essi ti spuntavano tra le nocche. Stavi ore in silenzio , così , nella tua camera.
I primi ricoveri li hai conosciuti in una clinica privata , in collina. La famiglia provò un trattamento meno duro di quello dei reparti ospedalieri ordinari. Venimmo a trovarti a Feltre in una giornata fredda di marzo; io ero adolescente, e camminavo dietro ai parenti, ultima della fila , nel lungo corridoio pittato di bianco, sovrastato alla fine da un grande crocifisso ligneo. Alle finestre della vecchia villa che ospitava la clinica, confusa in un magnifico parco, erano apposte sbarre laccate . Sbarre a tutte le finestre e per entrare nella tua stanza un infermiere aprì la tua porta con una chiave, dall’esterno. Ricordo che ti intravidi seduto sulla sponda del letto, in pigiama. Le imposte erano socchiuse. Io non entrai.
Dopo un breve periodo di cura, tornasti a casa inebetito dalla “ cura del sonno”, così la chiamavamo. Credo si trattasse di somministrazioni di potenti psicofarmaci. Cercavano di calmarti facendoti dormire. In casa si viveva sempre in silenzio, sussurrando le parole perché tu passavi ore nel sonno. Un sonno buio , assurdo e senza sogni. Qualche volta tua madre saliva alla tua stanza, bussava, ti lasciava del te e dei biscotti su di un vassoio, davanti alla porta. Ritornava senza dire una parola. Uscivi dalla camera solo qualche volta, per lavarti. Tua madre paziente, in cucina , ti faceva sedere davanti alla finestra, ti insaponava il viso e ti faceva la barba, con pennello e rasoio. Mentre facevo i compiti, nel salottino, sentivo che ti rivolgeva domande, ma tu rispondevi a monosillabi.
Ti portarono da molti professori, veri luminari. I loro nomi venivano mormorati appena, erano medici dei pazzi, la cosa era risaputa.
Avevi crisi sempre più frequenti e la parola schizofrenia prese il sopravvento . Non c’era modo di tenerti in casa . Ti avventavi contro la serva, la insultavi; tentasti più volte di soffocarti con dei fazzoletti, che qualcuno ti strappò di bocca, e poi piangevi disperato. Avevi anche iniziato a grattarti furiosamente una caviglia e in poco tempo eri tutto piagato. Tua madre ti medicava ogni giorno, implorandoti di smetterla chè eri già in carne viva. Io assistevo ogni tanto a queste medicazioni: la tua piaga mi era famigliare, un giorno era blustra, un altro rosso vivo. Camminavi in continuazione, malgrado le bende , e fumavi. Fumavi pacchetti interi e tossivi fino al vomito. Dormivi vestito, buttato sopra le coperte, e accumulavi giornali e ritagli nella camera. Alla fine impedisti a chiunque di entrarci. Ogni tanto lanciavi grandi urla che finivano in un silenzio inumano. Iniziasti così , seppur giovane, il tuo viaggio senza ritorno dentro gli ospedali psichiatrici. La legge Basaglia era di là da venire. I manicomi erano carceri. Carceri dentro vastissimi parchi dove gli ammalati , in pigiami a righe, maglioni e ciabatte, giravano a vuoto con le loro fissazioni, guardati a vista dagli infermieri. La ospedalizzazione consisteva nella costrizione fisica del malato di mente. Letti di contenzione, camicie con lacci , elettroshock.
Venni una volta a trovarti, assieme a tua madre, in uno di questi ospedali. Avevamo fatto un lungo viaggio in treno. Tua madre ti portò dei panini dolci, imbottiti di ottimo prosciutto san Daniele. Da quand’ eri ricoverato, tua madre vestiva sempre di nero e, religiosa come era, aveva fatto svariati voti alla Vergine, donando i pochi “ ori” che aveva , alla Chiesa.
Chiedemmo di te ad un grosso infermiere ; ci rispose che eri in giardino con gli altri. I tranquilli. Ricordo quando, dopo un breve girovagare, ti trovammo , solo, seduto su di una panchina. Avevi perso parte dei capelli ed eri molto dimagrito. Eri privo dei denti incisivi superiori. Te li eri tolti da te. Era una giornata soleggiata e tu sembravi rilassato. Sembravi….sapevamo che ti facevano iniezioni calmanti tutti i giorni. Tua mamma , traendoli dalla borsa, ti mise davanti , in fila, i panini, guardandoti sorridente : “ Li vuoi Antonio? Sono buoni , il prosciutto è dolce”.
Tu la fissasti , fissasti i panini e con un gesto deciso li gettasti a terra, tra i sassolini. Si aprirono e il finissimo prosciutto crudo finì sotto la panca : “ Portami via da qua, io non sono matto ” dicesti, riprendendo a fumare. Guardavi i passeri mangiare il pane e non parlasti più.
Sei morto all’età di 44 anni, senza riprendere più la ragione. La ragione intesa come la intendiamo tutti. Ma la tua ragione , forse, non l’ha ascoltata nessuno. In qualche raro momento di lucidità mi domandavi come andavo a scuola o se avevo un moroso, ma non attendevi mai la mia risposta. Ti distraevi immediatamente e in pochi minuti già eri rientrato nel tuo mondo.
Sei sepolto in un piccolo cimitero del Friuli, perso in mezzo alle vigne di merlot. Vicino a tuo padre e a tua madre. La piccola foto della lapide ti mostra con le braccia strette al petto, sulla difensiva, assomigli vagamente a Cesare Pavese.
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