43 - Schizofrenia | Prosa e racconti | maria teresa morry | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • Gloria Fiorani
  • Antonio Spagnuolo
  • Gianluca Ceccato
  • Mariagrazia
  • Domenico Puleo

43 - Schizofrenia

Ricordarsi di te  è ripercorrere una lunga malattia. La peggiore, ossia quella che veniva chiamata “   di mente”. Chi erano   ,  fino a  cinquant’ anni fa ,  i malati di mente? Forse oggi persone che verrebbero  ritenute appena appena  “spostati”  ,  “ strambi”…ma al  tempo degli ospedali psichiatrici, dei manicomi  chiusi, era diverso.  Ci si entrava molto facilmente! E i medici, allora, potevano anche attestare la “ pericolosità” sociale di un individuo. Una marchiatura  a fuoco per tutta la vita.
Tu cominciasti ad ammalarti da ragazzo. Sempre molto nervoso, polemico;  avevi scatti di  nervi che tua  madre non  capiva. Ricordo come guardavi  un punto fisso,con le iridi chiare  , ferme come pietre  dure,  su cose che vedevi  solo tu e diventavi livido in volto. Fumavi sempre, in  continuazione,  una   Nazionale via l’altra, avevi  forse  vent’anni,   credo. In poco  tempo la nicotina ti segnò le dita scarne sino all’attaccatura del palmo.  Prendesti l’abitudine di fumare in camera tua, e l’aria lì era ammorbante. Dormivi la notte,  dentro al  tuo fumo ,  poichè proibivi   che qualcuno aprisse le finestre della camera.  Una camera che  s’affacciava su di una calle, quindi senza luce per gran parte del giorno.  Ti ricordo con i capelli biondi sempre ispidi e ritti; nei momenti della  tua   silenziosa disperazione, ficcavi dentro le mani nei capelli ed essi ti spuntavano  tra le  nocche. Stavi ore in silenzio , così , nella tua camera.
I primi   ricoveri  li hai conosciuti in  una clinica privata ,  in collina. La famiglia provò un trattamento meno duro  di quello dei  reparti ospedalieri  ordinari. Venimmo a trovarti  a Feltre  in  una giornata fredda di marzo;  io  ero adolescente, e camminavo dietro ai parenti, ultima della fila , nel lungo corridoio pittato di  bianco, sovrastato alla fine da  un grande crocifisso ligneo. Alle finestre  della vecchia villa che ospitava la  clinica,  confusa in un magnifico parco,  erano apposte  sbarre laccate . Sbarre a tutte le  finestre e per entrare nella tua stanza  un infermiere aprì la tua porta  con una chiave, dall’esterno. Ricordo che ti intravidi seduto sulla sponda del letto,  in pigiama. Le imposte erano  socchiuse. Io non entrai.
Dopo  un breve periodo di cura,  tornasti a casa inebetito dalla  “ cura del sonno”, così la chiamavamo. Credo si trattasse di somministrazioni  di potenti  psicofarmaci. Cercavano di  calmarti  facendoti dormire.  In casa si viveva sempre  in  silenzio,  sussurrando le parole perché tu passavi ore  nel sonno.   Un sonno buio , assurdo e senza  sogni.   Qualche volta tua madre saliva alla tua stanza,  bussava,  ti lasciava del te e dei biscotti su di un vassoio, davanti alla porta. Ritornava  senza dire una parola. Uscivi dalla camera  solo qualche volta, per lavarti. Tua madre paziente, in cucina  ,  ti  faceva sedere davanti alla  finestra, ti insaponava il  viso e ti faceva la barba, con pennello e rasoio. Mentre  facevo i  compiti, nel salottino,  sentivo che ti rivolgeva domande, ma  tu rispondevi a monosillabi.
Ti portarono da molti professori,  veri luminari. I loro  nomi  venivano mormorati appena,  erano  medici dei pazzi, la cosa  era risaputa.
 Avevi crisi sempre più  frequenti e la  parola schizofrenia  prese il sopravvento .  Non c’era  modo di tenerti in casa .  Ti avventavi contro la serva, la insultavi; tentasti  più  volte di soffocarti con  dei fazzoletti, che qualcuno  ti strappò di bocca,  e poi piangevi disperato. Avevi anche iniziato a  grattarti furiosamente una caviglia e  in poco tempo eri tutto piagato. Tua madre ti  medicava ogni giorno, implorandoti di smetterla chè  eri già in carne viva. Io assistevo ogni tanto a queste medicazioni: la tua piaga mi era  famigliare, un giorno era blustra, un altro  rosso vivo.  Camminavi in continuazione, malgrado le  bende ,  e fumavi.  Fumavi pacchetti interi e tossivi fino al vomito.   Dormivi  vestito,  buttato  sopra  le coperte,  e accumulavi  giornali   e  ritagli nella camera. Alla fine impedisti a chiunque di entrarci.  Ogni   tanto  lanciavi  grandi urla che finivano  in un silenzio inumano.  Iniziasti  così ,  seppur  giovane,  il tuo viaggio senza  ritorno dentro gli ospedali psichiatrici. La legge Basaglia era di là da venire.   I manicomi erano  carceri. Carceri  dentro  vastissimi  parchi  dove gli ammalati , in pigiami a  righe, maglioni e ciabatte, giravano a vuoto con le loro fissazioni, guardati a vista dagli infermieri. La ospedalizzazione  consisteva nella  costrizione  fisica del malato  di mente. Letti di contenzione, camicie  con lacci , elettroshock.
 
Venni una  volta a trovarti, assieme a tua madre, in uno  di questi ospedali.  Avevamo fatto un  lungo viaggio in treno. Tua madre ti portò  dei panini  dolci, imbottiti di ottimo prosciutto  san Daniele.  Da quand’ eri  ricoverato, tua madre vestiva sempre di nero e, religiosa come era, aveva fatto svariati voti alla Vergine,  donando i pochi  “ ori”  che aveva , alla Chiesa.
Chiedemmo  di  te ad un grosso  infermiere ;  ci rispose  che eri in giardino con gli altri. I tranquilli.   Ricordo quando, dopo  un   breve girovagare,  ti trovammo ,  solo,   seduto su   di una  panchina. Avevi  perso parte dei capelli  ed eri molto  dimagrito. Eri privo dei denti incisivi superiori.  Te li eri tolti da te.  Era una giornata soleggiata e  tu sembravi  rilassato. Sembravi….sapevamo che ti facevano iniezioni calmanti tutti i  giorni.  Tua  mamma   , traendoli dalla  borsa,  ti mise  davanti ,  in  fila,  i   panini, guardandoti sorridente :  “ Li vuoi Antonio?  Sono  buoni , il prosciutto  è dolce”.
Tu la fissasti , fissasti i panini e con  un gesto  deciso li gettasti a terra, tra i sassolini.  Si aprirono  e il finissimo prosciutto  crudo finì sotto la panca : “  Portami  via da qua, io non sono matto ” dicesti,  riprendendo a fumare. Guardavi i passeri  mangiare il pane e non parlasti più.
Sei morto all’età di 44 anni, senza  riprendere  più  la ragione. La  ragione intesa come la  intendiamo tutti. Ma la  tua ragione , forse, non  l’ha ascoltata nessuno. In qualche raro momento  di lucidità mi domandavi come andavo a scuola o se avevo un  moroso, ma non attendevi mai la mia  risposta. Ti distraevi immediatamente e  in pochi  minuti  già eri rientrato nel  tuo mondo.
 
Sei sepolto  in un piccolo cimitero  del Friuli, perso in mezzo alle  vigne  di  merlot.  Vicino a tuo padre e a tua madre. La piccola  foto della lapide ti mostra con le braccia strette al petto, sulla difensiva, assomigli  vagamente a  Cesare Pavese.
 
 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 3 utenti e 6893 visitatori collegati.

Utenti on-line

  • Ardoval
  • Fausto Raso
  • Antonio.T.