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cancellarsi permanentemente da facebook

Aveva iniziato a guardare con diffidenza alla tecnologia dopo aver visto “Fino alla fine del mondo “ di Wenders. La protagonista di quel film cadde nella disperazione quando, nel bel mezzo di un deserto, le si scaricarono le pile. Alimentavano delle lenti che la proiettavano in una esistenza virtuale quando fu il buio. Una disperazione che assomigliava ad una crisi di astinenza e che gli rimase impressa. Tanto da affiorargli alla mente anche quando, dopo una visita oculistica, gli prescrissero gli occhiali. Aveva la sensazione di un corpo estraneo e una forte tentazione a sfilarseli. Diceva di vedere tutto come al cinema, con l'orlo della montatura a delineare lo schermo.
 
Al cellulare ci era arrivato per disperazione. Si arrese solo quando portarono via l'ultima cabina pubblica dalla piazza nell'indifferenza della “società del consumo”. Era rimasto l'ultimo fruitore di quella cornetta che conosceva solo le sue impronte digitali. I carabinieri lo guardavano con sospetto, non sapevano della sua resistenza al cellulare, pensavano solo che avesse qualcosa da nascondere. Così comprò un cellulare minimo e fece la prima comparsa negli schedari della compagnia telefonica. Rimase piuttosto sobrio senza mai farsi intortare dalle offerte promozionali: lo usava solo spalle al muro.
 
Quanto al computer, se ne serviva solo occasionalmente per battere a macchina, con l'indice destro e il sinistro di supporto per le maiuscole, gli appunti del suo taccuino logoro. Senonchè, chiamato al suo paese da vicissitudini familiari, si trovò nella disponibilità di un PC di proprietà dei nipoti. Quella situazione da “passo del gambero” lo portò a cercare consolazione in quel computer quotidianamente. Iniziò a condividere l'abbonamento a internet coi nipoti e a stabilirne fasce orarie di utilizzo. Aprì un account per la posta elettronica ed iniziò ad interagire col Web. Poi fece il passo ulteriore: aprì un sito di quelli gratuiti e pubblicò i suoi appunti. La notte viaggiava con la mente: stava quasi per ricevere il premio Nobel per la letteratura. Come contrappeso gli venivano in mente le parole di Kipling: “...se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori...”. Tutte masturbazioni, il tempo di capire che il suo sito era un ago in un pagliaio.
 
Facebook non l'aveva mai sfiorato. Nelle sue cerchie era sempre stato tabù se non oggetto di derisione: “ A Pinco piace il canarino di Silvestro”. La cosa più incredibile che gli era capitata fu quando, essendo stato invitato a pranzo da amici, i loro figli, più che adolescenti, mangiavano coi telefonini connessi a fianco alle posate. Una specie di miopia relazionale a prediligere quella virtuale. Il televisore ormai rimaneva acceso per inerzia, borbottava come un vecchio in disparte. La cosa non gli era nuova, gli era già capitata in treno: compagni di viaggio intenti sui propri gingilli, escludenti ed esclusi da quel tempo presente. In quei frangenti si ricordava della bella lettura filosofica, più che mai disperata, che E. Bloch aveva dato sul pensiero di Marx: eliminare l'alienazione.
 
Un giorno incontrò un amico di cui aveva stima e, dallo scambio, capì che era iscritto a facebook. -Facebook è uno strumento!- gli tornava a ripetere il suo amico nel momento del commiato. Dopo qualche giorno, di gran segreto, aprì una nuova casella postale e, con essa, si iscrisse a facebook usando uno pseudonimo: Cincinnato, un personaggio storico che lo aveva sempre affascinato. La prima impressione, digitando un po' a casaccio, fu quella della metropolitana di Londra. Entrando nel vagone, non sapeva mai quale parte del mondo potesse capitargli a fianco: non c'era razza che non fosse rappresentata. Una grossa opportunità, distanze azzerate da un semplice clic. Nei giorni successivi continuò nella sua opera di voyeuraggio . Ravvisò una gran voglia di Grande Fratello: in molti, secondo lui, essendo stati esclusi dopo averne fatto domanda, avevano ripiegato su facebook. Il quarto d'ora di notorietà profetizzato da Warhol era giunto a compimento. Ma, oltre alle celebrazioni dell'io, così come era rappresentato tutto il mondo, c'erano anche i vari interessi. Questi lo spinsero ad assolvere il suo amico secondo cui facebook era uno strumento. Così si iscrisse ad un gruppo di haiku e cominciò a scriverne.
 
I cerchietti rossi numerati delle notifiche del gruppo illuminavano le sue giornate. Saliva la febbre di facebook e, con essa, una strisciante dipendenza. La sua componente giacobina già iniziava a mostrare segni di insofferenza. Un giorno, poi, commise l'imprudenza di contattare il suo amico rivelando la sua identità nascosta. In poco tempo si ritrovò in una cerchia di amici per cui la sua vera identità era diventata il segreto di Pulcinella. Tanto valeva cambiare le impostazioni e scriverci il suo nome. Così fece ma niente fu come prima. Le relazioni erano diventate troppo onerose e il suo background gli tornava prepotente. Da ragazzo aveva avuto la fortuna di guardare un film vecchissimo dal titolo “Un volto nella folla”. La storia di un uomo, un avanzo di galera che suonava la chitarra; fece fortuna e balzò agli onori della cronaca; fino a che non si spensero i riflettori e, amaramente, tornò un volto nella folla.
 
Paradossalmente con facebook, sebbene non avesse mai pubblicato la sua foto, aveva avuto la sensazione opposta. Iscrivendosi ma soprattutto rivelando la sua identità, gli sembrò di trovarsi un volto nella folla. Ormai era crisi conclamata, bisognava eliminare il morbo. Digitò sul motore di ricerca: cancellarsi permanentemente da facebook. Digitò la password e si aprì una pagina penosa: gli amici con la lacrimuccia che avrebbero sentito la sua mancanza. Passò oltre, trascurò di dare le motivazioni e copiò il codice patcha. Arrivò al clic storico e non ebbe esitazione alcuna. Niente da fare, reclamavano le motivazioni!. Allora riprese la casella e scrisse qualcosa di estemporaneo: “non tira il vento su facebook, i giorni sono tutti uguali, non c'è il sole né la pioggia”. Così sembrarono contenti ed accettarono la sua richiesta riservandosi di tenerla in un limbo di 14 giorni.
 
Sul momento sentì sollevazione ed un forte senso di liberazione che durò almeno un paio di giorni. Tanto ci impiegò il primo richiamo palesandosi sottoforma di nuovo haiku che sembrava più bello di tutti gli altri pubblicati su facebook. Lo annotò sul suo taccuino e lo ripose con un senso di frustrazione. Già perchè adesso doveva fare i conti con quel presente e trovare il coraggio e la maniera di affrontarlo. Facebook non era il morbo e tantomeno uno strumento, e se lo era, era chiaramente strumento della vanità. Facebook era il sintomo della frustrazione, del presente insufficiente, del contingente senza gioia. A questo la tecnologia non poteva sopperire se non offrendo palliativi o analgesici. Piuttosto poteva servire una canzone di Patty Pravo: “Una mattina d'estate”.

 

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