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l'ombra di mio padre due volte la mia

(da la casa di Hilde F. De Gregori)

Mentre io mi rapportavo ai fornelli, mio padre guardava "ELISIR": una trasmissione che istigava all'ipocondria. Il conduttore mi risultava indigesto per la saccenza del suo labbro superiore. Una volta, però, parlando del rapporto padre-figlio, raccontò di un suo amico che, solo alla morte del padre, la salma esanime nella bara, riuscì a carezzargli la fronte.

Da sempre, con mio padre, era in atto una tacita quanto perversa relazione tutta mentale, fatta di pensiero preventivo e teso a limitare l'uso della parola. Uno strano gioco di attenzione e di considerazione dell'altro, tanto da anticiparne bisogni e non tradirne aspettative. Un gioco che si rivelò nella sua nudità alla morte di mia madre, quando crollò anche quel ponte fisico che ci univa. Rimanemmo due sponde distinte che si osservavano a distanza, bagnate dal fiume di silenzio che scorreva.
Alla notizia della malattia mi arrogai il diritto di non informarlo. Il mio senso di protezione volle metterlo al riparo da una via crucis di sale d'aspetto, degenze, interventi chirurgici, chemio-terapie che offendessero la dignità di una persona. Soprattutto, temevo per la sua fragilità emotiva all'impatto con quella notifica. Quando uscimmo dall'ospedale, lui sembrò sospettare qualcosa e, per qualche giorno, pareva avvolto dalla tristezza. Poi riprese la sua vita quotidiana e tutto tornò come prima. 
Passarono giorni, mesi e stagioni nella quotidianità più assoluta. La mia decisione di tenerlo all'oscuro della sua malattia si era consolidata. Ogni sera ringraziavo la serenità del giorno trascorso per avermi dato ragione. Per contro, era aumentato il mio livello di attenzione: mi ero caricato di tutte le preoccupazioni come atto di responsabilità. La notte vigilavo mentre andava in bagno e mi riaddormentavo solo quando tornava a letto e spegneva la luce. Quando aveva dei colpi di tosse, poi, li sentivo risuonare dentro di me e mi spalancavano gli occhi impietriti.
Un giorno, di ritorno dal far la spesa, lo trovai, in anticipo sulle sue abitudini, a casa. Era seduto in quella che, in genere, era la mia postazione, con occhiali da lettura, penna in mano e foglio bianco. Lasciai le buste sul tavolo e mi avvicinai per indagare. Confessò che era stato in banca a ritirare la pensione e non era riuscito a fare la sua firma. Lessi tutto il suo sgomento per quell'accadimento e la pudica difficoltà nel rapportarmelo. Minimizzai immediatamente facendo passare la cosa come relativa e trascurabile. Svuotai le buste della spesa poi, sul foglio bianco riprodussi la sua firma e lo invitai a copiarla. Per i giorni successivi si dedicò assiduamente al recupero della sua firma, l'identità di una vita costruita in giorni, mesi, anni, così fragile da tremare in un attimo.
La domenica, sul tardi, mi intrattenevo alla TV guardando un telefilm americano dal titolo "Saving Hope". Oltre ad essere americano, era anche ambientato in un ospedale. Ci sarebbero stati tutti i presupposti per non vederlo, vista l'inflazione sul genere ma questo era diverso. Oltre a raccontare le relazioni fra medici ed infermieri, si spingeva oltre il fenomeno. I pazienti in stato di coma uscivano fuori dal corpo e   vagavano invisibili nell'ospedale. Si trovavano in una sorta di limbo, una sala di attesa inter-dimensionale. Per me la reincarnazione era molto di più di una semplice ipotesi, era la chiave del mio rinnovamento spirituale. Mi ero ripromesso che, nel giorno fatidico, avrei levato lo sguardo al soffitto e gli avrei detto "arrivederci".
La malattia si manifestò in tutta la sua prepotenza attraverso gli effetti collaterali. All'inizio sembrava un banale malanno di stagione che era riuscito ad ingannare persino il medico di famiglia. A quel punto le distanze si ridussero fisiologicamente, vuoi per l'ineluttabile tempo residuo, vuoi per la sua dipendenza nei bisogni primari. Riuscivo a carezzargli la fronte e a tenergli la mano come se lo avessi fatto da sempre. Lo pettinavo, gli facevo la barba, vegliavo sul suo sonno: ero diventato la sua ombra. La sera in cui passò, mi scordai di guardare il soffitto e non trattenni le lacrime. 
 

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