Scritto da © Antonio Cristof... - Mar, 14/05/2013 - 03:57
Carissimi lettori questa volta voglio farvi raccontare la storia delle carte napoletane, e chi meglio di don Enrico Tummolo lo può fare?
Vi chiederete chi sia costui, allora vi parlerò brevemente di lui. Tanto per cominciare lo vedete immortalato nella foto a destra mentre se la ride con le figlie e con un collaboratore in una camera ardente. Ed a proposito di “immortalato”, don Enrico è un mio caro amico, impresario di pompe funebri. Se dovesse servirvi, sappiate che applica prezzi concorrenziali: due al costo di una, con materiale di ottima qualità, finemente lavorato e soprattutto comodo. Posso garantire, ho sperimentato personalmente. Una volta mi disse:
-Don Antò, quando vi prego, fate ‘na prova…-
- ‘Na prova?- feci sbalordito.
- Si, stendetevi dentro e ditemi come vi trovate…-
Dopo varie insistenze, mi stesi e lui mi chiese:
-State comodo?
-Comodissimo…-
- Don Antò, vuie llà dinte state nu bijù!-
Don Enrico è un fenomeno vivente conosce tutto della morte, ma anche della vita, è un’enciclopedia di proverbi dal ‘500 ad oggi. Ve ne dico uno stranissimo che poi vi traduco: “Fuitinne fittinne” cioè scappa guardando indietro che non ti raggiungano.
A scopa, poi ve l’ho detto nella puntata di apertura, ricorda tutte le carte. Ho come la sensazione che ne distingua il valore al tatto. Per questo motivo è veramente difficile batterlo. E’ uno degli ultimi uomini d’onore del quartiere, una sorta di Sindaco al quale si rivolgono tutti quelli che han subito un torto o coloro che comunque han bisogno di un qualsivoglia consiglio. Ma lascio a lui ora la parola (scritta).
L’asso di coppe
Salute a noi. Scusate se vado un po’ di fretta perché ci ho un “intervento” tra un quarto d’ora, quindi, sarò breve e conciso a proposito dell’asso di coppe.
Nel medioevo napoletano, strano a dirsi, le carte avevano uguale successo sia a Corte sia nelle bettole. Tra i nobili e, in pari misura, tra il popolo era diffusissimo il gioco della scopa, così chiamato perché con una carta se ne può scopare, cioè raccogliere un’altra che giace sul tavolo. Insomma ricchi e poveri, salute a noi, “scopavano” una continuazione! Nelle taverne, oltre alla scopa si giocava il “pizzo a vino”, un gioco d’azzardo in cui si mettevano in palio le proprie possibilità economiche e la capacità di assorbire vino senza ‘mbriacarsi.
I disegni sulle carte napoletane assumono, naturalmente, le caratteristiche e i costumi dell’epoca alla quale via via si sono adeguate. Esse sono, salute a noi, meno ricche delle carte venete e toscane, ma più essenziali e più popolari. A Napoli le carte si trovavano dappertutto: a Corte, nelle taverne, per strada, dal maccarunaro, dal pesciaiuolo, dal trippacottaro, tra gli scugnizzi che giocavano negli angoli dei muri, nelle carrozze tra i viaggiatori, perfino da mastro “Impicca” (1) mentre preparava un patibolo.
L’asso di coppe è la prima carta dell’ultimo seme. Su di essa è raffigurata un’urna in stile barocco nella quale è idealmente racchiusa l’unicità dell’esistenza, l’essenza stessa della vita in tutta la sua ampollosità ed il suo virtuosismo in funzione del quale una dolce figura di testa di giovanetto è scolpita quasi sul fondo del calice a raffigurare il piacere fondamentalistico e baccanale come nutrimento della carne e dello spirito.
Pensierino del giorno.
“Murì è una de ddoie cose che se ponno fa stanne stise. L’ata ‘nduvinate qual è?”
Salute a noi e saluti a voi.
(1) Era così chiamato un famoso boia napoletano
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