Le Fate Del Deserto | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Le Fate Del Deserto

Mio padre, che Dio lo abbia in gloria, era un bell’uomo alto e snello, capelli brizzolati tagliati alla “Mascagna”, fossetta nel mento, elegante nel vestire, forbito e colto. Di lui ricordo in particolare il suo modo di camminare grazie al quale procedeva sempre con decisione e speditezza. Tutto il contrario di me che ero lento e caracollante, indeciso e timido.
Mio padre era un uomo all’antica, un po’ fuori dal tempo in cui è vissuto, tanto che più volte lo avevo sentito dire fra sé: “Ah, se fossi nato cent’anni prima!”.
Da noi figli pretendeva sempre il massimo in tutto: nello studio, nel comportamento, nello sport, ed io, che, per la verità, ero piuttosto gracilino, cagionevole di salute, debole nel carattere, decisamente non riuscivo a rendere nelle varie mie attività così come egli avrebbe voluto, a differenza dei miei fratelli che eccellevano in palestra ed a scuola. Per questo il mio genitore nell’autunno del 1923 decise di chiudermi in un collegio dove potesse essermi impartita quell’educazione spartana da lui tanto agognata, atta a rafforzare il mio carattere, e con esso, il mio corpo ed il mio spirito.
            Il collegio prescelto era gestito dai padri Carmelitani ed era annesso al monastero di San Paolo a Sant’Agata dei due Golfi.
Il borgo sorge in una posizione privilegiata su un promontorio che si distende tra i golfi di Napoli e quello di Salerno e si affaccia proprio di fronte all’isolotto de “Li Galli”, dimora delle mitiche sirene. E’ una stazione climatica frequentata fin dalla prima metà dell’ottocento, famosa per le peculiarità paesaggistiche e per i riferimenti mitici che rimandano appunto all’antichissimo culto delle sirene.
Il collegio era situato lungo il versante nord di una collina che i padri Carmelitani denominarono “Il Deserto” per essere diventata loro eremo di preghiera e di meditazione. In realtà si trattava di una vasta zona, disseminata di alberi  di frutta e  di agrumi, che affacciava su un azzurrissimo mare.
            I miei mi salutarono a casa. Il distacco fu traumatico ed il mio comportamento, secondo le concezioni di mio padre, fu poco edificante: piansi tanto da non riuscire a trattenere le lacrime. Mia sorella Ersilia mi preparò una piccola valigetta di pelle nella quale aveva messo un po’  di biancheria, due camicie nuove, un pigiama, “L’Isola del tesoro” di Stevenson, “Dalla Terra alla Luna” di Jules Verne,  un paio di pantofole e due maglie di lana. Questo era tutto il mio bagaglio per affrontare una nuova vita, quella che poi si sarebbe rivelata un’avventura tale da cambiare per sempre la mia esistenza, con un nuovo modo di concepire le cose e di comprendere me stesso.
            Ad accompagnarmi in collegio fu Alfredo. Si trattava di un omino non più giovane che, praticamente, viveva da sempre in casa nostra come tuttofare; in particolare aiutava nelle faccende domestiche Dora la cameriera, ed in cucina la cuoca Assunta. Era un tipo strambo, un po’ “abbonato”[1], come si dice a Napoli, bruttissimo, con radi capelli su una testa a forma di pera e con un naso lungo e poroso che sembrava un asparago. Parlava esclusivamente in dialetto, era molto ignorante, ed appena sapeva leggere e scrivere.
Mio padre mi fece trasferire in collegio a bordo della nostra auto guidata dall’autista di famiglia. Lasciai casa durante un giorno piovoso; mi girai indietro e vidi il viale alberato della “Santarella”[2] che sfilava veloce e silenzioso nella mestizia delle foglie ingiallite che volavano via col vento e delle nuvole nere  che incombevano sempre più minacciose.
A Via Caracciolo, le onde del mare andavano ad infrangersi sugli scogli e sui fianchi del Castel dell’Ovo, sotto lo spirare di un vento che via via diveniva sempre più imperioso. Nell’aria fredda volavano in circolo i gabbiani che di tanto in tanto si tuffavano nell’acqua schiumosa.
            Dopo circa un’ora, arrivammo a Massalubrense, e di lì a poco a Sant’Agata ed al monastero. Quando vi giunsi la pioggia aumentò d’intensità, tra le nubi saettavano i fulmini e rotolavano lunghi tuoni. L’autista scese dall’auto e ci accompagnò con l’ombrello fin sotto il portone. Alfredo si guardò intorno, poi tirò una cordicella legata ad un campanello. Attendemmo oltre due minuti, prima che si aprisse un piccolo spioncino all’interno del quale appena si intravedeva la faccia rossa e grassa di un monaco.
- Chi siete? – chiese.
- Ci ha mannato il cavalier Uberto – rispose Alfredo – Chist’è ‘o figlio. Il padre già v’ha parlato…-
Lo spioncino si rinchiuse e qualche istante dopo si aprì la pesante porta di legno.
- Venite…- disse il monaco strofinandosi le mani per il freddo. Lo seguii insieme ad Alfredo, mentre l’autista se ne tornò in automobile. Il frate camminava ondulando a passetti piccoli ma veloci, tanto che facevamo fatica a stargli dietro.
Attraversammo l’intero chiostro, salimmo una ventina di gradini che ci portarono su in un corridoio nel quale si sentivano i nostri passi echeggiare. Dopo un po’ arrivammo ad una porticina dove il monaco si fermò e disse ad Alfredo: - Qua vi dovete salutare…-.
Non pensavo che Alfredo si sarebbe commosso. Lo avevo sempre visto un po’ distaccato da tutte le faccende della nostra famiglia, anche se, in fondo, ci viveva dentro. Egli badava sempre e solo al suo lavoro, ad eseguire puntigliosamente gli ordini di mio padre senza mai commentare.
- Beh, ccà ce lassamme…- disse, cercando di rincuorarmi – Qua ti troverai bene…Si mangia, si gioca… si gioca, si…Ah, e po’ se studia! Qua diventerai un avvocato, ‘nu giudice, ‘nu professore…Ti imparerai tante belle cose…Beh, io, se mi sarà possibile, ti vengo a trovare…- Riuscii perfino a dargli un bacio, prima di congedarlo ed andar via con un groppo alla gola. Non venne mai a trovarmi, e morì con un cancro allo stomaco prima che uscissi di collegio.
Quando quella porticina si rinchiuse alle mie spalle, la mia vita cambiò profondamente: in famiglia mi sentivo solo perché nessuno riusciva a comprendermi, qui solo lo ero davvero, unicamente in compagnia della mia debolezza, della mia timidezza, con le mie paure. Peggio ancora, non avevo più con me la mamma dalla quale andare a sfogare le mie amarezze, alla quale chiedere conforto.
            La vita in collegio era davvero dura: la sveglia suonava alla sette del mattino, e alle sette e trenta tutti dovevano essere rigorosamente presenti in cappella per il Mattutino. Alle otto ci aspettava una fugace colazione, dopodiché fino alle tredici e trenta si svolgevano le lezioni di Italiano, Latino, Storia, Matematica, ed in prevalenza, lettura e analisi del Vangelo. Alle quattordici  eravamo riuniti nella sala mensa per il pranzo, poi, dopo una breve ricreazione, tutti ancora a studiare fino alle diciannove, quando dovevamo di nuovo recarci in chiesa per il Vespro.
Come potrò mai dimenticare quelle preghiere serali? I Frati entravano in fila indiana in cappella, dove noi ragazzi si stava già ad aspettarli. Il padre Priore apriva la processione, dritto come uno stoccafisso, con le mani congiunte, la testa rivolta all’insù e gli occhi appena socchiusi. Poi, via via, tutti gli altri che cantavano in coro:
[BD18223_]

 
“Ti salutiamo Vergine, colomba tutta pura.
[BD18223_] Nessuna creatura è bella come te…”
 
E noi all’unisono rispondevamo, sempre cantando:
 
[BD18223_] “…Prega per noi Maria,
prega pei figli tuoi.
Madre che tutto puoi
[BD18223_] Abbi di noi pietà.”
 
 
 
Buon ultimo, di corsa, quando la funzione era ormai iniziata, giungeva fra’ Simone, da tutti meglio conosciuto col soprannome di fra’ Pazzia.
Era costui un ometto ben corto di statura, magrissimo, con una barba grigia, folta, ispida e lunga che gli copriva quasi interamente il volto già seminascosto da due grosse sopracciglia sotto le quali si agitavano gli occhi piccoli e neri come la notte. Si era meritato quel nomignolo per le stranezze che andava facendo e le storie che andava raccontando. In verità, era ben donde dall’essere una persona normale con tutte le rotelle a posto. Era addetto a suonare le campane, ma molto spesso, invece di tirare il cordone per smuovere il battaglio, saliva fin su al campanile, si fasciava la testa con uno straccio per turarsi alla meglio le orecchie e martellava la gola delle squille con un maglio che egli stesso teneva appoggiato al perno del mozzo sulla torre. Quando scendeva da lassù, camminava barcollando e diceva con un marcato accento basilisco: - Accossì se sonavano ‘na vota lli campane!-Veniva da Melfi ed aveva un modo di parlare molto veloce, tanto da risultare, a volte, incomprensibile. Trascorreva ore ed ore da solo, su al belvedere posto sul tetto del monastero, proprio sotto la torre sulla quale si leggeva un monito in latino: “ Tempus breve est”, o, più spesso, se ne andava ramingo sulle pendici del Deserto e si fermava per ore ad osservare il mare. Quel che era strano era il fatto che se ne usciva  con qualsiasi tempo: col sole, con la pioggia, con il vento, al caldo o al freddo, e quando, spesso, ritornava tutto inzuppato d’acqua,  si lasciava asciugare il saio addosso. Nonostante questo, non ricordo neanche una volta di averlo visto malato, né di averlo sentito starnutire.
Durante il Vespro, per la stanchezza, quasi mi addormentavo. Il coro monacale giungeva al mio orecchio come una soave ninna-nanna; sentivo il confortante calore delle candele accese; il  tremolio della loro fiamma  mi attraeva incredibilmente; cercavo nei volti dei santi, dipinti sotto la cupola della cappella, quello di mio padre e quello di mia madre, dei quali, in tale ovattato dormiveglia, riuscivo perfino a scorgerne i tratti a me così cari, così familiari. Al termine dell’Ufficio ormai dormivo in piedi, ed era allora che altre immagini si affollavano nella mia mente: una spiaggia assolata sulla risacca della quale si venivano a depositare placidamente le onde; ragazzi che giocavano a pallone sulla sabbia; aquiloni che fuggivano via col vento…
Una sera quell’abbandono mi costò caro: padre Giacomo, uno dei frati più severi, si accorse che quasi dormivo, così mi prese per un braccio e mi strattonò violentemente, con estrema cattiveria, con l’intento proprio di farmi male, e la cosa non finì lì. Alla fine delle orazioni mi prese in disparte e mi disse:
- Non è buona educazione addormentarsi in casa d’altri! E tu lo hai fatto in casa del Signore! -
Mi rinchiuse in un piccolo stanzino vuoto e mi lasciò al buio per tutta la notte. Durante quelle lunghe ore fui in preda ad un’angoscia indicibile. Tutti i bambini hanno paura del buio, ma io, fin da piccolissimo, ne ero addirittura terrorizzato. Avevo sempre  temuto che l’oscurità fosse uno stretto passaggio verso un’altra dimensione, verso un mondo popolato da esseri malefici, creature della notte, entità il cui solo scopo fosse fare del male ed il cui nutrimento fosse la paura altrui. Così cercai di impegnare la mia mente pensando a persone o ad episodi del mio passato che  ricordavo con  piacere.  Ce n’era uno in particolare che mi aiutò a superare il mio profondo timore per l’oscurità: era avvenuto, quando avevo sette anni, nientemeno che nel gabinetto di casa mia, dove un dì  ci  eravamo cacciati io e mia cugina Titti, di due anni più giovane di me, bramosi di far porcherie.
- Ti dico che comincia la femmina a far certe cose…- dissi – E’ la femmina! – e, preoccupato, spiavo dalla toppa della porta per vedere se qualcuno di famiglia si avvicinasse.
  - E’ il cavaliere a…- rispose la Titti come infreddolita, con le guance tracciate di vermiglio e con gli occhi lucidi fissi sul mio viso paonazzo.
- Hai le mutande, Titti? –
- Certo! – E quasi controllò, come se non se le sentisse addosso. Io pensai a Dio e a quanto potesse star dicendo e minacciando per quella nostra intenzione. Immaginai allora la soglia dell’Inferno: una bocca fiammeggiante sul ciglio di un nero abisso, nel profondo del quale mi pareva di scorgere indistinte forme mostruose di diavoli e dannati. Ma quell’angioletto biondo, complice della mia perdizione, ormai privo di celesti veli, che stava in silenzio a guardarmi ed a mostrarmi quel piccolo tesoro indifeso, imberbe ed acerbo, ben mi aveva tratto dal margine di tal nero baratro ed aveva  provveduto ad innalzarmi alla luce del Paradiso.
Mostrai alla Titti il mio “oggetto misterioso”, e stette, ella, piccola e nuda, a guardare le mie fattezze solerti e ad offrirmi le sue. Stemmo come giovani alberelli all’abbaglio dell’alba, immobili nella terra fresca del mattino, muti all’aria calma, piena di canti d’uccelli intorno.
- Ti piace? – chiesi alla Titti bianca e rossa.
- Si!-
Assaggiai, allora il suo calore ed ella si riscaldò col mio. Ci parve solo una cosa buffa quel peccato mortale, strana nell’intenzione di farla, ed ancor più strana mentre la si stava facendo. Nient’altro.
Il dolcissimo ricordo di quel mio primo approccio sessuale riuscì a distogliermi dalla paura del buio per un po’di tempo, ma poi il mio senso dell’irrazionalità ebbe il sopravvento, ed ecco che cominciai a vedere materializzarsi l’ombra di spettrali creature minacciose e fameliche che mi circondavano. Non feci altro, allora, che coprirmi gli occhi con le mani e gridare a me stesso: - Sono solo, qui! Solo! Solo! –
All’alba venne ad aprirmi fra’ Pazzìa:
- Che cacchie ave combinate pe’ fa’ ‘ncazzà accussì lu frate Giacomo, ne guagliò? – chiese.
- Mi sono addormentato durante la messa…-
- Ah! Chesta nun ene[3] cosa buona. Ci stanne modo e modo de durmire. Io, per esempio, nun duormo e sonno cu’ ll’uocchie aperte?-
- E cosa sognate? –
- Ah…’Nu posto…-
- Un posto? –
- Sine! ‘Nce stace ‘nu posto luntano, luntano, eppure accussì vicino, addove ve dimorano li fate, creature straordinarie che conoscono la magia. ‘Stu posto se trova dall’altro lato de la cullina, addove ‘nce stacene antri e caverne, alberi e fiori. E se trova pure sotto a lu mare de rimpetto! Ma chisto ene ‘nu posto addove ene difficile trasire[4] pecchè li porte s’arapene a distanza di generazioni e se truovene addove vengono a cuntatte la terra e l’acqua, lu giorno e la notte, ‘nu luogo e ll’atu luogo appresso…E sai tu qual’ene precisamente l’epoca quande s’arapene li porte? Ene chesta! E lu posto ene Crapolla[5]. Là lu tempo s’ene fermato. Là se n’arrivaie San Pietro che veneva da la Palestina. Là ‘nce steve ‘nu tempio antichissimo dedicato allu dio pagano Apollo addove accumparevano li fate che, tra li albere se ne saglievene fino a ccà, ‘ncoppo a lu Deserto. E dint’’a lu Deserto, io proprio, l’agge viste! –
- Avete visto le fate? E com’erano? –
- Erano farfalle bellissime! –
- Far…falle? –
- Oppure uccelli…-
- E come fate a dire che fossero fate? Potevano essere dei comunissimi volatili…Poi voi, siete un monaco e mi venite a parlare di fate? –
- E che de’ né? Ca mò, pure tu me piglie pe’ sceme? Ma che te cride che io songhe omme de piglià asse pe’ figure[6]? Ma lu ssaie o nun lu ssaie chi songhe ‘sti fate? Songhe Angeli che quando scuppiaie la guerra tra Dio e li demonie, nun pigliarono nisciuna pusizione. Rimanettero, comme se dice..?-
- Neutrali.-
- Eh. Ma non solo: certe song’Angeli e ciert’ate songh’anime che nun s’hanno ancora guadambiato lu  Paraviso e vagano pe’ la terra pecchè devine arrimediare a qualche cosa che hanno lasciato in suspeso dint’’a ‘sta vita. E quante ce hanno arrimediate, finalmente ponno raggiungere la luce de lu Signore. Queste sono le fate de l’aria e si mostrano solo a li uomini creativi, a quelli che tengono fantasia, donano loro l’ispirazione e spesso…Sai tu che fanno, spesso? Trasformano in oro li comuni oggetti. Tu tiene ‘nu cuppino o ‘na cucchiara? Quelle…Zacchete! Te lu fanne addivintà d’oro a diciotto carati.-
            Le parole di fra’ Pazzìa mi avevano ammaliato non poco. Era mia ferma convinzione, allora, che le fate fossero creature fiabesche che vivevano con i folletti, gli gnomi, gli elfi, i troll in un mondo incantato, fuori del tempo, dove non esistevano né malattie né dolore. Mai e poi mai avrei immaginato di sentir parlare di siffatte creature da un religioso.
A disincantarmi fu la voce di frate Giacomo che, comparso sulla porta dello stanzino, mi disse:
- Allora? Hai dormito bene questa notte? – Non risposi alcunché, e lui continuò: - Chi tace acconsente. Mi fa piacere, così non dormirai durante le liturgie…- Poi, rivolto a fra’ Pazzìa, aggiunse: - E voi? Sarà meglio che andiate, i lavori nell’orto vi attendono…- Fra’ Pazzìa accennò appena ad un  saluto, poi andò via frettolosamente. Non appena rimanemmo soli, fra’ Giacomo mi si pose davanti, mi prese entrambe le orecchie fra le mani e mi chiese:
- Non ti avrà mica riempito quella bella testolina con tutte le sue dicerie circa apparizioni avvenute nel Deserto?  In altri tempi sarebbe stato arso vivo quell’eretico dolciniano. Oggi, invece,  è libero di insidiare la mente dei giovani con le sue mitomanie.-
- No…non mi ha detto niente…- risposi, tremando di paura.
- Bene…- fece egli, lasciandomi andare e tenendomi una mano sulla spalla – Oggi niente studio per te…solo lavori. “Ora et Labora” diceva San Benedetto, fortifica l’animo e ci rende utili.-
Mi fece lavare tutti i corridoi e le scale del monastero. Generalmente questo era un lavoro che svolgevano delle donnette che venivano dal paese, ma in quei giorni, codeste, essendo impegnate nella festa parrocchiale di Sant’Agata, non erano potute venire su al convento. I corridoi giravano su due piani tutto intorno. Al primo piano c’erano le celle dei monaci, al secondo, invece, quelle che fungevano da alloggio di noi giovani studenti.
 
Non ho mai saputo davvero quanto mio padre avesse pagato per tenermi là dentro, ma qualunque cifra sarebbe certamente stata troppo alta rispetto a quello che i monaci ci offrivano. Le nostre cellette erano sporche ed umide, poveramente arredate, con un lucernaio tanto in alto che per poter guardare fuori si doveva salire sull’unica sedia in nostra dotazione. Il cibo era scarso e scadente (spesso patate. Ah, quanto le ho odiate!). La domenica si rinunciava alla cena ed il venerdì si digiunava per penitenza. I monaci erano tutti silenziosi, severi e scorbutici, tranne frà Pazzìa, che per le sue estrosità ed il suo modo di pensare (odiava i preti grassi e quelli ricchi), era decisamente evitato da tutti gli altri. Del Padre Priore non so molto, lo vedevo solo durante le orazioni mattutine o quelle serali, mai una volta a passeggio nel chiostro o nei corridoi. Il più temibile, comunque, era proprio frà Giacomo. Egli era altissimo e di corporatura possente, aveva capelli lunghi e folti (insoliti per un monaco), con delle sopracciglia ispide ed arcuate ed una bocca grande nella quale s’intravedeva una dentatura sempre bianchissima. Era l’unico a non portare né baffi né barba ed il suo aspetto era più simile a quello di uno stregone (un Cagliostro, tanto per intenderci) che a quello di un monaco. Oltre a lui, si distinguevano in modo particolare per  bassezza e crudeltà, tutti quelli che ci facevano lezione: da frà Gambino, che ci insegnava Letteratura, Storia e Geografia, più che a parole, a bacchettate; a frà Costanzo, che cercava di farci entrare in testa l’Aritmetica e l’Algebra tirandoci le orecchie; a frà Cinello, il più perfido dei tre, con le sue continue citazioni in latino accompagnate da potenti schiaffoni. Naturalmente tutte queste materie, compresa la Matematica, da loro ritenuta un' opinione, erano farcite di riferimenti evangelici, rafforzate da punti di vista  cattolici-fondamentalisti, secondo i quali, un cerchio si poteva quadrare per l’alto volere di Dio; Garibaldi e Mazzini avevano fatto l’Italia per ispirazione divina; l’Impero romano era caduto per vendetta del Signore.
            Strano a dirsi, ma l’unico che si comportava secondo la logica del monachesimo era fra’ Pazzìa. Egli si dedicava ai lavori più umili, alla preghiera, alla contemplazione del creato e, soprattutto, era l’unico che dava conforto a noi ragazzi, là dove non c’era nient’altro che distacco, freddezza e, soprattutto, pene corporali.
- Attraverso il dolore si purga l’anima- diceva fra’ Cinello che (lo scoprii per caso),  portava ancora il cilicio sotto il saio. Cosicché non ci venivano risparmiate bacchettate sulle mani o nerbate sulla schiena o, ancor peggio, la passeggiata in ginocchio sui ceci e la reclusione in stanzini vuoti e bui che già avevo avuto modo di sperimentare. E tutto per sia pur lievi mancanze, perché se la trasgressione, secondo il loro punto di vista, era giudicata grave, allora, oltre a mortificare il corpo, veniva mortificato anche lo spirito con pratiche innominabili ed inconcepibili  in un monastero.
            Chi mi mancava di più là dentro era mia madre, né riuscivo a farmene una ragione di come avesse potuto acconsentire al mio allontanamento, se non per il fatto che la paura di mio padre fosse più forte dell’amore che ella mi portava. Ma, forse, non era paura, forse si trattava solo di rispetto per le decisioni del marito; certamente ella ne aveva sofferto in silenzio. In tutto il tempo durante il quale sono stato rinchiuso in collegio, i miei genitori vennero a trovarmi solo due volte, entrambe a Natale. Mio padre, sicuro di aver fatto la scelta giusta, si ripeté per tutte le due volte con una frase che sapeva tanto di convenzionale:
- Vedrai…Uscirai di qui con un carattere sano e forte, che ti permetterà di affrontare a viso aperto tutte le avversità della vita…-
Mia madre non parlava, non faceva altro che guardarmi ed accarezzarmi i capelli. Avrebbe voluto dir qualcosa, ma non osava. Forse avrebbe voluto portarmi via con sé, ma non faceva altro che ripassarmi le dita tra la capigliatura e tacere. Ma io sentivo quel suo silenzio, ascoltavo la sua mente, percepivo la sua pena e tacevo anch’io; parlavano i nostri occhi, i nostri abbozzati sorrisi, la nostra debolezza. Si, perché, altro che carattere forte! La mia indole si stava indebolendo sempre di più, ero diventato ancora più incerto e pavido, temevo tutto e tutti, avevo paura di muovermi e l’unico mio conforto era il sonno, durante il quale, sognavo spesso quella mano di mia madre accarezzarmi i capelli. Una notte, nel buio della mia cella, sentii toccarmi per davvero la testa, mi svegliai di soprassalto, ma, quando accesi la candela (nelle nostre celle non c’era energia elettrica) sistemata in un piattino di ferro sulla sedia accanto al letto, mi accorsi che nella stanza non c’era nessuno. Eppure non avevo sognato, il tatto di quella mano sul mio capo l’avevo sentito davvero!
            Quando raccontai il fatto a fra’ Pazzìa, questo mi prese in disparte e mi disse:
- Sai tu che nce steve tanti e tanti secoli fa’ ccà ‘ncoppo, proprio a lu posto addove giace mò lu monastero? Un tempio dedicato alle sirene! –
- Le sirene? –
- Siiiiiii! Le sirene, le sirene…E sai tu che tra li sirene e li fate niente ‘nce passa! E che nce passa? Propeto e propeto niente! Stamme a sentere, mò: questa notte ti è venuto a trovare ‘na fata e t’ave accarezzate li capille. E sai tu che significa? –
- Che…che significa? –
- Che t’ave invitato nel suo mondo…Siiiii…t’ave invitate…E sai mo’, tu, comme ‘nce puo’ ire int’’a ‘stu mondo? –
- N-no…-
- Cu’ l’oblio. Ti devi scordare tutto quello che conosci, quello che sei e, soprattutto…
- Soprattutto? –
- …Devi affrontare la possibilità di non ritornare più! –
- Ma, tu? Tu, ci sei andato? –
- Già. Comm’è che me vide accussì? –
- Accussì, come? –
- Accussì comme songhe. Me vide accussì pecchè quande so’ andato, po’ ‘na parte de me non è cchiù turnata. So’ rimasto accussì, come mi vedi: ‘nu povero disgraziato che sogna ad occhi aperti. Sogna, senza speranza, de ‘nu mondo migliore, addove nun ce fosse più superbia, avarizia  e cattiveria comme ‘nce sta dint’’a ‘stu munasterio addove tutte parene cchiù preda de lo demonio che creature de Dio, e io stesso lu songhe, visto ca nun tengo lu coraggio e la forza di accidere tutte quante ‘sti muonece che nun fanne ate che ingrassare cu’ li denare de’ ll’ate. Li bruciasse vive, comme lloro facettere ne lu medioevo cu frate Dolcino, saggia e santa anima di Dio![7]
Parlava con tanto ardore che il sangue gli andò alla testa e divenne rosso e paonazzo come un peperone.
Quel suo sfogo mi lasciò molto perplesso. Lo avevo giudicato uomo semplice, umile ed arrendevole, invece covava fuoco sotto le ceneri ed  era solo un piccolo essere, pavido come me.
- E’ vero. – risposi – Siete stato nel mondo delle fate, ma ora non so più quale parte di voi sia tornata: la peggiore o la migliore? -
Queste mie parole lo turbarono e lo indispettirono, tanto che, non solo non mi rivolse più lo sguardo, ma andò a riferire le confidenze che gli avevo fatto a fra’ Giacomo che incaricò fra Cinello di condurmi nel suo ufficio. Durante il tragitto costui mi parlava in latino, chiedendomi cos’altro avessi mai fatto di tanto grave da essere condotto così d’urgenza in quell’ufficio, ma io, in preda al terrore, non ero in grado di declinare alcun sostantivo né coniugare alcun verbo. Fra’ Giacomo era seduto dietro una grande scrivania piena di libri, di quaderni e di fogli. Quando rimasi da solo al suo cospetto, prese proprio uno di questi fogli  e me lo mostrò:
- Sai cos’è questo? Lo sai? –
Non risposi.
- Te lo dico io! Questo è il contratto formativo firmato da tuo padre affinché tu possa ricevere una sana educazione in questo collegio. Il tuo buon padre spende fior di quattrini per fare di te un uomo forte, colto e timorato di Dio. Proprio per questo timor di Dio, per la fede che aleggia in questo santo monastero, il nostro Padre Priore non può sentirsi dire che qui dentro, oltre a quel matto di fra’ Simone, c’è qualcun altro che crede nell’esistenza di stupide creature mitologiche, ritenendo addirittura di essere stato toccato, quindi prescelto, da una di esse: da una fata!
- Ma, io…-
- Silenzio! A valle, in località Vadabillo, venne alla luce una vasta necropoli formata da sarcofagi di tufo e databile fra il settimo e sesto Secolo avanti Cristo. Il ritrovamento di un’anfora su cui è raffigurata una sirena alata ha dato poi forza alla leggenda di queste mitologiche creature su questa collina. Ora, credere nelle leggende, anziché nelle verità del Vangelo è cosa sacrilega! Empio paganesimo! Eretismo! Quell’incosciente idiota di frà Simone ha impastato la tua mente con queste blasfeme concezioni minacciando il tuo spirito, minando la Verità. Per questo è stato già punito con dieci nerbate sulla schiena, e per questo anche tu sarai punito nel peggiore dei modi: sarai denudato, ed esponendo le tue vergogne, vagherai per dieci giorni in ogni dove di questo monastero. Tutto per ricordarti che cenere sei e tale diventerai!-
Fui spogliato nel chiostro davanti a tutti, fra lo scherno dei miei compagni, lo sguardo sdegnoso di alcuni monaci e quello libidinoso di altri, qualcuno dei quali in seguito tentò anche di avvicinarmi e mettermi le mani addosso.
Ero distrutto, e nelle poche ore durante le quali non davo spettacolo di me a lezione o in cappella, ero nella mia cella a piangere, con lo sguardo fisso sull’attaccapanni dove non c’era più appeso neanche un mio abito, tutti sequestrati e custoditi da fra’ Giacomo.
Allora cercai di nuovo di impegnare la mia mente pensando a persone o a cose del mio passato che  ricordavo con  piacere; così mi vennero in mente certe mie vecchie letture  che mi avevano sempre affascinato: dalle fiabe dei fratelli Grimm, alle “Mille e una notte”, a “Biancaneve e i sette nani”, ai romanzi di fantascienza “Dalla terra alla luna” e “Ventimila leghe sotto i mari” . Ripassavo mentalmente le scene che vi erani descritte o viste ed avevo quasi la sensazione di vederle. La mia principale ancora di salvataggio fu, però, la poesia: quella letta di altri o quella scritta da me stesso. Spesso mi ritrovavo a ripetere versi del Carducci:
 
“…Bei cipresseti, cipresseti miei,
fedeli amici di un tempo migliore.
Oh, di che cuor con voi mi resterei…”
 
Versi del Pascoli:
“…Nel mio cantuccio donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell’ore viene col vento
dal non veduto borgo montano…”
 
Versi del Novaro:
 
“Che cosa dice la pioggerellina di Marzo
che picchia argentina sui tegoli vecchi dei tetti?
-Passata è la lunga vernata…Passata…passata.
Domani sarà primavera! – “
 
            Durante una di quelle notti sentii di nuovo accarezzarmi i capelli. Mi svegliai di colpo e nel buio scorsi, seduto accanto a me, fra’ Pazzìa:
- Siete venuto a toccarmi? – chiesi.
- No, pe’ Gesù e Maria! E’ peccato mortale! E io già n’aggio fatto uno: pe’ scellerato risentimento te so’ juto a denuncià proprio a chillu diavolo di frate Giacomo. Mi potrai mai perdonare?-
- Per fortuna ormai siamo all’inizio dell’Estate ed il clima è piuttosto caldo.- risposi sorridendo.
E lui:- Avive ragione tu! E’ cosa vera che nello mondo de le fate c’è rimasta la parte migliore di me. Di qua se n’è tornata quella peggiore…Forse pe’ m’aiutà a combattere la malvagità co’ altra malvagità, ma è pure overe che la cattiveria nun se stuta mai cu’ ata cattiveria, anzi si alimenta!  Ho deciso di andare a riprendere la mia parte migliore…- Così detto, andò via.
Lo ritrovarono morto sulle pendici del Deserto il giorno dopo. Il medico, chiamato da Massalubrense, disse che era deceduto in seguito ad un infarto. 
I dieci giorni trascorsero ed io potei rivestirmi di nuovo. La bella stagione giunse con tutti i suoi stupendi colori. Il chiostro era un bel vedere di fiori variopinti, le mura erano ricoperte di ruta. Le pendici del Deserto erano invase da un mare lussureggiante di papaveri e rinnovate calendule. Il sole batteva forte sul monastero, tanto che il Padre Priore aveva dato il permesso a noi giovani di intrattenerci un po’ fuori col calare delle ombre per ritemprare il corpo con la misericordiosa brezza che spirava dal mare.
            Durante una di quelle ore serali, attratto da una splendida luna, senza neanche accorgermene, mi allontanai dal gruppo e cominciai a ridiscendere una delle pendici del Deserto. I peschi avevano già sostituito i loro fiori rosei con un’enorme quantità di foglie lanceolate e seghettate. Dall’erbetta, ramificavano, con piccole fronde coriacee e grandi fiori di vari colori, delle spontanee e bellissime azalee. Ero sceso già per un bel po’, quando la mia attenzione fu attratta da un fenomeno straordinario: decine e decine di farfalle, così insolite a quell’ora, fluorescenti come lucciole, cominciarono a svolazzare tra gli alberi ed andarono a posarsi sui fiori. D’improvviso udii dietro di me un battito d’ali, mi girai e vidi una donna bellissima,  che indossava una lunga veste bianca. La sua figura emanava una strana luce abbagliante. Avanzava verso di me sfiorando appena il terreno, senza muovere le gambe. Dapprima fui invaso da un forte senso di inquietitudine, che svanì non appena l’apparizione mi fu vicino,  lasciando posto ad una grande serenità allorché la bocca della donna s’incurvò in un confortante sorriso. Subito dopo udii il soave suono della sua voce, molto simile all’armonico vibrare delle corde di un’arpa. Più che parlare, sembrava suonare un motivo dolce e delicato.
Disse: - Dio, che ha promesso di essere presente in coloro che lo amano e custodiscono la sua parola con cuore retto e sincero, non è ancora mia stabile dimora…-
- Chi…sei, tu? – chiesi con le lacrime che mi rigavano il volto per la grande emozione.
- Fui donna onesta e sincera, figlia e sorella premurosa, sposa felice, madre amorevole…Ora sono anima in pena che vaga su queste alture, in questa dimensione tra il cielo e la terra, da oltre settant’anni.- Aprì lentamente la lunga veste bianca e mostrò un corpo di uccello. Fu solo allora che notai dietro le sue spalle un paio d’ali molto simili a quelle di una gigantesca farfalla.
- Sei una…fata? – chiesi.
- Sono un sogno ad occhi aperti, un mondo nel quale può entrare solo chi conserva nel suo cuore il bambino che era stato una volta.-
Un alito più caldo di vento mi sfiorò la fronte, il mio corpo diventò leggerissimo, si sollevò da terra e cominciò ad ondeggiare con la brezza, sotto la luna, sotto le stelle che sembravano brillanti incastonati nella volta scura del cielo.
- So-sono morto…come fra’ Pazzìa? – chiesi.
- Il suo tempo era terminato, non così il tuo che è ancora lungo ed impegnativo. Nei giorni in cui ero in vita accadde un drammatico episodio per effetto del quale entrai poi in codesta particolare dimensione. Grande era l’amore che portavo per il mio sposo, eppure egli dubitò di me in seguito ad una scandalosa calunnia diffusa da sua sorella. Costei, donna cattiva ed invidiosa, che arde ormai in un profondo inferno, costruì ad arte una serie di  false prove onde far credere al mio sposo di un mio tradimento consumato con la complicità di un comune amico. E’ ben strano come qualcuno che si è sempre comportato con rettitudine nella sua vita debba poi vedere il suo onore infangato da una volgare impostura. Ed è cosa estremamente triste che chi ti sta vicino, chi ti ama, possa subito crederci senza neanche ascoltare le tue ragioni. Mio marito mi affrontò con una tale risolutezza come mai gli avrei attribuito; mi assalì prima verbalmente, passando subito dopo alle vie di fatto, picchiandomi tanto che alla fine non avevo più la forza di sillabare due parole. Fu allora che fui colta da infarto e morii. Comprendi? Sono morta senza avere la possibilità di discolparmi, senza poter dimostrare la mia assoluta innocenza.
Quel che voglio da te e che tu rintraccia mio marito e riesca finalmente a dirgli che giammai l’ho tradito.-
- E come farò a fargli capire che…si, insomma che ho parlato con voi?-
Mi descriverai, poi gli dirai il mio nome: Eleonora, e se non sarà convinto gli parlerai del maglione verde che io stessa gli feci e gli regalai il giorno del nostro primo anniversario. Se ancora non sarà convinto, gli dirai: “Non c’è stella che brilla come i tuoi occhi, non c’è luna che splende come il tuo viso”. Me lo diceva spesso durante le nostre passeggiate serali sul lungomare.-
Mi diede tutte le indicazioni per rintracciare quell’uomo, poi sparì, frantumandosi in una miriade di stelline, che brillarono, sparse qua e là nell’aria, per qualche attimo e poi si spensero. Mi ritrovai seduto a terra,  mentre scoppiò un improvviso e repentino temporale con tuoni e fulmini.
Da quel giorno non si verificò mai più nel Deserto alcun particolare fenomeno. Vi andavo giornalmente, forse nella speranza di avvistare di nuovo quella dolcissima fata, o sirena, o ninfa che fosse, ma non vidi altro che lo svolazzare di decine e decine di farfalle variopinte, stagliate sull’incantevole bellezza del mare e del cielo.
            Quando uscii di collegio avevo diciassette anni, ero quasi un uomo, ed avevo un unico forte desiderio: recuperare il tempo perduto, ritrovare la mia famiglia, i miei fratelli, i miei amici. Tuttavia non avevo certo dimenticato quel magico episodio, così mi misi alla ricerca dell’uomo indicatomi dalla magica apparizione.
Si chiamava Alfredo Beuf ed abitava non molto distante da casa mia, al Vomero, nei pressi della Villa Floridiana. Gli annunciai telefonicamente la mia visita, ma non gliene dissi il motivo.
Egli viveva da solo, come mio padre era di stampo antico, aveva, ormai, ben oltre novant’anni. Mi ricevette con molta circospezione, anche se con cortesia e discrezione, e, ancor prima di ascoltarmi, cominciò ad interrogarmi con lo sguardo facendomi accomodare in salotto ed offrendomi subito una tazza di tè.
- Cosa vi ha, dunque, spinto qui da me, giovanotto? – mi chiese abbozzando un sorriso.
- Vede…non è facile da spiegare…-
- Quando due sconosciuti si incontrano per la prima volta non è mai facile spiegare alcunché, ma sono curioso di sapere cosa può volere un giovane come lei da un vecchio come me…-
 - Ha mai letto fiabe?-
- Fiabe? Oh, si! Tanto, tanto tempo fa, da bambino…”Pollicino”, “La Principessa sul pisello”…Mi impressionava particolarmente quella di “Biancaneve”, sa, per via della strega, della mela avvelenata…Ma, le dirò, preferivo quella degli stivali delle sette leghe… Non sarà mica venuto a vendermi libri di fiabe?-.
- No.-
- Mi dica cosa vuole, allora. Perché è venuto a parlarmi di favole? -
 - Più precisamente sono venuto a parlarle di…fate.-
- Fate? Ma che giorno è oggi? – chiese grattandosi la testa canuta.
- Signor Beuf…io…ho…conosciuto…sua moglie! –
Sorrise, si grattò ancora la testa, poi avvicinandosi di più, mi disse: - Io non so chi lei abbia conosciuto, ma non era certamente mia moglie. Vede, io sono vedovo da molti anni. Mia moglie è morta ancor giovane. Non può lei av…-
- Si chiamava Eleonora! -
- Come fa a saperlo? –
- So molte altre cose. Mi racconti della storia del tradimento.-
Sbarrò gli occhi, si alzò e disse con voce cupa: - Ma chi è lei? Cosa vuole da me? –
- Per favore, mi racconti…-
- Se ne vada o chiamo la polizia! – Si alzò, si diresse al telefono; stava per comporre il numero, quando anche io mi alzai, mi avvicinai e gli dissi:
- L’ho veduta!-
- Pazzo! Pazzo! Signore Iddio, costui è totalmente pazzo! –
- Era bella, alta, con i capelli biondi sciolti e fluenti in tanti riccioli sulle spalle…-
Lui si girò intorno come per vedere se io avessi avvistato in qualche modo un ritratto della moglie. Era agitato. Continuai:
- Ho veduto il suo spirito! -
L’anziano signore, colpito dalla mia descrizione, depose la cornetta del telefono, stette per qualche attimo in silenzio, poi ripeté: - Chi è lei? –
- L’ho veduta! -
- Non ci posso credere…-
- Le fece un maglione verde e glielo regalò nel giorno del vostro primo anniversario di matrimonio…-
- Come lo sa? – chiese con gli occhi rossi ed umidi.
- L’ho veduta! –
Stette per un po’ di tempo in silenzio con la testa china, poi alzò lo sguardo e disse:
- …Era una maglia a giro di collo. La indossai spesso…Devo averla ancora da qualche parte…-.
- Mi dica del tradimento…-
- Ma, io…-
- “Non c’è stella che brilla come i tuoi occhi, non c’è luna che splende come il tuo viso”- dissi.
Gli occhi del vecchio, rimasto ammutolito, si riempirono di lacrime. Dopo un altro lungo silenzio, finalmente, mi raccontò: - Fu mia sorella a dirmi che aveva scoperto la tresca fra mia moglie ed Osvaldo, uno dei miei migliori amici. Mi disse che approfittavano delle mie continue assenze per vedersi. Allora viaggiavo spesso per lavoro. Mi raccontò di averli un giorno seguiti e colti in flagrante nel chiostro della villa Floridiana, proprio qui vicino. Fui accecato dalla rabbia, affrontai mia moglie senza neanche ascoltarla, usai le mani. Lei, forse per la grande vergogna, ebbe un infarto e morì quasi sul colpo.-
- Non fu la vergogna ad ucciderla – risposi – fu il dolore per l’ingiusta accusa e per l’iniquo disprezzo che lesse negli occhi di chi aveva sempre amato e rispettato. Vostra sorella era gelosa di vostra moglie. Ella s’inventò tutto. La signora Eleonora non vi ha mai tradito. Lei, con la sua poca fede, ha distrutto la vita di sua moglie e la sua stessa! -
- Lei l’ha veduta? –
- L’ho veduta! –
- E…com’era? –
- Una fata! –
            Andai via lasciando quel vecchio uomo solo e pensieroso in una casa grande e vuota, piena solo di ricordi e di quel che avrebbe potuto essere e non era stato.
Quella sera guardai il cielo stellato: migliaia di brillanti vi luccicavano splendenti come l’argento. Mi persi in quella immensità con la consapevolezza che lassù si era accesa un’altra stella.
 
 
Qualiano, 22 marzo 2004
 
[1] Mezzo scemo.
[2] Zona del Vomero che prende nome da una commedia di E. Scarpetta.
[3] In dialetto, verbo essere: è:
[4] In dialetto: transitare, entrare.
[5] Una spiaggetta antichissimo approdo di pescatori raggiungibile via terra con una passeggiata di 45 minuti da S.Agata.
[6] Proverbio dialettale tipico del sud: prendere “asso per figura” significa scambiare una cosa per un’altra.
[7] Frate Dolcino da Novara, che all’inizio del ‘300 capeggiò una vasta rivolta contadina nell’Italia settentrionale. Fra’ Dolcino aveva preso la guida del movimento degli Apostolici (nato verso il 1260 nella regione di Parma), dopo la morte di Gerardo Segarelli, arso vivo.
 

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