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Cronache letterarie II: nuova editoria, McCarthy, Oates

Mary McCarthy

Nuove forme editoriali

 

“Crediamo che scrittori e lettori dovrebbero decidere quali libri devono essere pubblicati”, questo si legge sulla home page dell'editore inglese Unbound. La notizia l'ho letta, in realtà, sulla rubrica di Repubblica Internet club curata da Loredana Lipperini. L'idea, spiega la giornalista, è semplice: lo scrittore illustra la trama del suo romanzo sul sito direttamente ai lettori prima di scrivere il libro. “Se il navigatore apprezza, supporta economicamente” la pubblicazione. Print on demand, dunque. Non solo, “tutti coloro che aiutano lo scrittore a raggiungere il 100 % dei consensi, e a ottenere la pubblicazione, troveranno il proprio nome stampato in ogni edizione del libro che inizia a essere scritto quando l'obiettivo è raggiunto”.

Prima di aggiungere altre considerazioni voglio notare che anche nell'ambito dei premi letterari è in corso una specie di “decrescita”: il premio letterario Mauri-Spagnol, per esempio, giunto alla sua seconda edizione è già un successo grazie al fatto che si basa su una giuria popolare di autori/lettori che votano e spingono verso la pubblicazione – in formato ebook o cartacea- le opere in concorso, senza ricorrere alle consuete “giurie” dall'insindacabile giudizio (come si legge spesso nei bandi). Insomma, i tempi stanno cambiando e si può dire che i lettori si stanno riprendendo i loro diritti.

 

Soltanto un dubbio, pero', sulla formula “democratica” di Unbound: mi chiedo se “raccontare la trama” sia di per sé un modo efficace di qualificare un'opera letteraria. Questo può valere per i romanzi tradizionali, diciamo per la maggior parte delle pubblicazioni in circolazione (troppe, come sappiamo). Ma l'opera inconsueta che non si riassume nel classico plot...Se James Joyce o Raymond Queneau avessero dovuto puntare sul sorteggio del pubblico per le loro opere i risultati sarebbero stati, probabilmente, deludenti: Gente di Dublino avrebbe vinto su Ulisse, temo, per la sua "leggibilità". 

Ma cosa dire di scrittori ai limiti del prolisso ma geniali (e di fatto molto amati da una nicchia di lettori) come Philip Roth, Foster Wallace, Salinger e tanti altri? Ricordiamoci che la leggibilità è una funzione delle nostre abitudini di lettura, perciò non assicura quella memoria a lungo termine di cui hanno bisogno di “capolavori”. Molto rari, d'altra parte. Forse funzionerà questo sistema se i lettori si ricorderanno che la trama non è tutto, se sapranno essere “veggenti”, per dirla con Rimbaud.

 

 

Due scrittrici dalla mente dorata

 

Mary McCarthy è nota soprattutto per il romanzo Il gruppo (Einaudi). Ben poco si sa di lei a parte il carattere combattivo e le idee letterarie decisamente moderne (l'educazione cattolica produce, qualche volta, effetti collaterali). Parlando di trame, nel leggere Il gruppo mi sono trovato ad assaporare il “movimento” delle scene, la “struttura” precisa con cui è costruito: un gruppo di amiche uscite dal college che affrontano la vita e ne vengono trasformate si trasformano in una sorta di figura complessa, non tanto geometrica ma semmai una “geometria delle passioni” (titolo di un libro del filosofo Remo Bodei).

Con stile e ironia da vendere, Il gruppo è una continua scintilla che salta da una frase all'altra, e con un tocco da Grande Gatsby (Mr Brown durante un cocktail: “Vitini di vespa. Gambe affusolate. Da uomo del decennio scorso, preferisco anch'io le figure un po' androgine: una ragazza con la cuffia pronta a tuffarsi dal trampolino. Ricordi estivi di Marblehead; Bettie è una nuotatrice meravigliosa”).

 

Dicevo della struttura del romanzo: tranne i primi capitoli, dove le storie s'intrecciano all'unisono, il resto della vicenda isola le protagoniste nelle loro vite per analizzarne capricci, condizionamenti, delusioni, tragedie...E' come un prisma, giri le pagine e ti ritrovi in un altro punto luminoso. Oggi lo stile di McCarthy appare desueto, certo, ma nell'insieme è un romanzo stimolante e di un'invidiabile lucidità: attacca le vanità e i conformismi, ma non si limita mai alla satira. E quanto allo stile, al confronto certe scrittrici dei nostri tempi fanno la figura di cammelli impagliati.

 

L'età di mezzo di Carol Joyce Oates, invece, è un'esperienza molto diversa. In termini di costruzione romanzesca qui il “centro” di partenza è letteralmente assente, si tratta della morte di Adam Berendt, uno scultore dilettante che vive in una piccola comunità vicino Manhattan, Salthill-on-Hudson. Tutto comincia da quel tragico tuffo in acqua, da questo punto in espansione che finisce con invadere l'intera comunità. Il problema comincia per il lettore quando tenta di afferrarne il senso al di là delle singole scene, peraltro interessanti. Sensazione di deriva, non proprio piacevole.

Di Oates apprezzo molte cose, a cominciare dallo stile diretto e coinvolgente che le ha regalato una fama, a mio avviso, meritatissima. Brava lo è stata fin dagli esordi (ne ho parlato qualche tempo fa su The Art of Hunger) e prolifica come pochi a tal punto che l'hanno soprannominata in America “miss word processor”! Ma questo romanzo richiede una pazienza fuori dal comune o un gusto per lo svisceramento psicologico che non sembra messo al servizio di nessuna causa.

Intendiamoci, L'età di mezzo contiene alcune parti splendide: la nevrosi di Abigail, il rifugio artistico di Marina a caccia di fantasmi di Adam e l'intero coro dei personaggi sono certo degni della potenza stilistica di un'autrice che non ha, probabilmente, molti rivali seri in fatto di ossessioni umane. Ma arriva sempre il momento in cui l'incanto si spezza: sarà pure una grande elaborazione del lutto, per dirla con la psicanalisi, ma mi viene voglia di dare ragione a quelli che dicono: “Ehi, se non c'è una storia non è un romanzo, d'accordo”? Sarebbe una cattiveria con la cara, vecchia C.J.Oates.

 

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