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da "La torre di cristallo" - 11

 
Maggio ‘93
Roma
Ore 18.20
 
 
Faccia strana questo dottore. Pizzuta. Occhietti di ghiaccio. Capelli lunghi, grigi. Una camicia con le maniche arrotolate e un gilet di cotone. Rosso. Jeans. Sembra un texano. Poco serio. Poco affidabile.
Lì guarda, tutti e tre. Sorrisetto falso. Non le piace. Forse neanche a Fabio.
Prego, dice. E li fa entrare in una stanza. Sembra la stanza di un asilo. Tutti giochi a terra. E un grosso specchio alla parete. Enorme. Sarà un sei metri per due. Davvero enorme. Ci deve essere una finestra, dietro la tenda di velluto verde, spessa. Chiusa.
Poi lui esce. E li lascia lì. Scusate un attimo, dice. E se ne va.
Nora si siede. Anche Fabio, in silenzio. Ci sono quattro sedie rosse. E una blu. Come quelle delle scuole dei piccoli. E cuscini a terra. E un tappeto. Tutto è colorato. Rosso, giallo, blu. Il fuori non esiste. Sembra un gioco dove ci si nasconde e ci si chiude, con il mondo escluso. Nora si alza e prende un gioco da un cesto. E guarda allo specchio. Si guarda. Specchio grande. I pantaloni le stanno ancora bene. E anche la camicia celeste e la giacca blu. Di lino.
Ma dove sarà andato quello. Li ha lasciati là. Dice che torna subito. Giorgio s’è messo a giocare con una macchinina. Una Ferrari.
Non la fa camminare. La sbatte contro la mano. Al solito. Solito gioco. Si colpisce la manina aperta. Mille volte. E fa il suo solito suono strano. Chillchillchill. E gridolini. Fabio dice che chillincia. Fa male al cuore a guardarlo.
Fa male come quando si guarda un morente. O un ferito grave. Che ha perso le gambe, o un occhio. O una mano. E non si può fare proprio niente. Niente.
Nove anni ad aspettarlo e ecco qua. Un figlio così. Che direbbe scemo, lei. Scemo, scemo. Un figlio scemo. Ma non lo dice. Lo pensa a metà e poi caccia il pensiero (era meglio se abortivo) e si morde il labbro all’interno, per punirsi.
E il dottore che non torna. E lei che cerca di far giocare Giorgio. Ma quello niente. Solo a sbattersi quella cavolo di macchinina sulla mano. Strafottuta macchinina su quella piccola mano.
- Ma dov’è andato il dottore? Fabio la guarda. E lei che ne sa? Deve sapere tutto lei. Si sente sola in questa guerra. Solissima. Come sempre.
Passano forse venti, venticinque lunghissimi minuti. Non sa che fare. Si annoia. E ha paura. E se questo non ci capisce niente?
Quello specchio non deve essere uno specchio. Mi sa che è come nei film americani. Sì, sì. E loro vedono. Il dottore e quell’altra. La dottoressa, l’aiutante. Quella con cui ha parlato al telefono. Che ha detto che le sedute avvenivano a volte con tutti e due. Il dottore e lei. Un’ora e mezza di seduta. Due volte settimana. 160 mila lire a seduta. Con la fattura. Se la vuole. Sicuro che la vogliamo.
Ecco e adesso li stanno a guardare. A spiare. Ma dai, Nora, piantala. Stanno studiando, non spiando. Cavolo.
Lei cerca di giocare. Si sente osservata. Sta girando un film. Ecco. Fabio non parla. Ogni tanto sorride a Giorgio. E gli fa no! Non si fa e vorrebbe levargli la macchinina. O farlo giocare come fanno tutti. A fare brum brum e fare correre la macchina.
Ma Giorgio non fa niente come fanno tutti.
Giorgio è strano. E non piange mai. Solo quando esce da scuola. E piange strano. Senza lacrime. Questo povero figlio con un mostro nel cervello che gli mangia l’amore. La felicità. L’infanzia. Questo figlio che le divora la giovinezza. Il futuro. Tutte le speranze d’eternità.
Questo figlio che le divora l’anima. E se l’è finita tutta.
(by poetella)
 
 
 

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