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Donatella

Questa storia è tutta vera fin nei dettagli, e voglio che resti qui a elogio di uno spirito divenuto sublime suo malgrado.
 
Oggi è il 4 gennaio, mercoledì. Ero in giro, dalle parti di Porta Torre, a Como. Così sono entrato in una delle diverse librerie che gravitano intorno alla piazza. Dentro, era accesa una radio.
 
Eravamo seduti a un tavolo di legno vecchio. L’androne era buio, come sempre, e senz’aria, perché era un sotterraneo con solo alcune finestrelle, comunque sbarrate, in alto, che davano sui sampietrini del vicolo sovrastante, via Urbana, alla Suburra, alle spalle del Colosseo. Stupefacente che non arrivasse nessuno a sbatterci fuori e a imporre la chiusura di una tale topaia, senza nessuna uscita di sicurezza o minima garanzia igienica.
Donatella mi stava di faccia, sedevamo in quattro. Siccome eravamo come una specie di congregazione, si parlava tutti di tutto, senza curarsi dei minimi convenevoli. E conoscersi o meno non era assolutamente di impaccio a qualsiasi forma di incontro. E così si “sparava” fuori quello che si aveva da dire, nel modo preferito e indipendentemente dall’interlocutore. Questo di regola. Ma io Donatella la conoscevo già – anzi, tutti la conoscevano, e siccome era impossibile non sapere di lei, diventava difficile parlare con lei. E lei questo doveva saperlo, perché iniziava a parlarti con una certa cautela, una specie di pudore immalinconito con il quale ti comunicava l’ansia indagativa di chi si martoria con staffilate auto-referenziali, tipo “Ma conoscerà già la mia storia?”, “Lo sa già chi sono io?”.
- Io lo so chi sei. – Le dissi subito perciò. – So già la tua storia. Te lo dico così, subito, così ce ne liberiamo e non ne parliamo più.
- E’ molto bello quello che dici. – Mi rispose. – Sono contenta che tu lo dica.
- Non lo dico perché è bello. – Replicai a mia volta. – Lo dico proprio per liberarcene, per essere liberi di non parlare di quella storia.
Così lei mi ringraziò, proprio così, mi disse inaspettatamente grazie e passammo oltre. trascorremmo insieme la serata, scherzando e sghignazzando un po’, come fanno tutti i giovani di questo mondo. Sarà stato il ’79 o l’80, qualsiasi rospo avessimo ingoiato nei nostri trascorsi, potevamo cavarcela e sopravvivergli in grazia dei nostri vent’anni. Ma sopravvivere non è solo un vivere indifferente e spianato, come non vi fosse alcunché cui si era sopravvissuti. Al contrario, vi erano, vi sono, tracce evidenti nel portamento, nella psicologia, nell’anima, se c’è un’anima, di chiunque, che testimoniano delle nevrosi e delle tragedie depositate nei relativi sotterranei. Perché l’anima, se c’è, dev’essere come una catacomba ricolma di sogni infranti, di giocattoli spezzati…
E le catacombe dell’inconscio di Donatella, faceva impressione a gettarvi un’occhiata. E nondimeno vi si era indotti dalla sua pupilla sperduta che vagolava dentro lo sguardo come naufraghi in mezzo all’oceano, e dal suo eloquio frammentario, incerto, in cui percepivo umanità e delicatezza, come se non volesse mai apparire troppo invasivo. Vi si discerneva il nodo doppio del suo tormento: non poter dimenticare quel suo passato e insieme la premura di non trasmetterne neanche un atomo a chicchessia, temendo, anche solo con una particella, di offendere a sangue l’interlocutore.  
Lei mostrava una certa simpatia per me e io la ricambiavo, non foss’altro per quei suoi modi che chiedevano protezione senza imporlo, come se dicesse: se ti fa piacere, aiutami, ma senza sentirti obbligato, per carità. E magari questa sua simpatia era nata lì, al tavolaccio oscuro, davanti a una birra, per quella mia dichiarazione, a quanto pare, “straordinaria”, come disse lei, che nessuno le aveva mai fatto.
Ma non potevo ricambiarla del tutto, perché ero intricato già in una storia con un’altra, e anche con le sue belle gatte da pelare. Sì, mi sentivo intenerito da quella tacita supplica di attenzione e così vi corrispondevo per quanto era nelle mie possibilità. Quando ci incontravamo ci scambiavamo due parole e ci salutavamo amichevolmente, lei col suo Romanaccio borgataro, un po’ grezzo, io col mio Romanaccio inzuppato nel mio orticello “metafisico” e perciò un po’ più forbito, sia pure goffamente, e lasciando a mezz’aria, sempre, qualcosa di incompiuto, come se non arrivassimo mai a un dunque che bolliva sopra e sotto di noi.
Posso immaginarmi che avrebbe voluto volermi bene, ma non osasse neanche indulgervi, anche perché il suo passato, come una “pietra refrattaria”, ne comprimeva dall’interno gli slanci d’amore, ricordandolo come inferno,  non come estasi. E di certo, pur magari rammaricandosene, non voleva intervenire sull’altra storia che vivevo già.
M’invitò a una sua festa, invito che declinai per altre gabole precedenti, e costava qualcosa quel “no”, perché sembrava “no” anche e ogni volta all’implorazione del suo sguardo, del suo sorriso triste che reclamavano quel soccorso senza impegno di sempre.
La incrociai per la strada che tornava dal fornaio. Le diedi un numero di telefono per restare in contatto, che lei trascrisse sulla busta del pane, nel buio umido della serata invernale. E mi chiamò dopo qualche dì per chiedermi, così disse, di chi era quel numero dimenticato “sul pane”. Forse non lo aveva dimenticato affatto. Forse era ancora un tentativo di giungere al mio cuore senza allarmarlo, senza farmelo pesare…
E poi la vita mi cacciò altrove e non la rividi più.
 
E oggi, maledizione, debbono tenere accesa la maledetta radio, in libreria – ahimè, come detesto questa pratica grossolana di tenere sempre i massmedia a tutto volume nei negozi, dove uno vorrebbe concentrarsi per selezionare ciò che cerca. Chissà non lo facciano apposta per indurti a spendere senza intendere… ed è così questa dannata radio a farmi sapere quello che avrei preferibilmente appreso da un giornale, seduto e con la possibilità di riflettere, maledetti!.
Donatella è morta già da qualche giorno. I famigliari l’hanno rivelato solo adesso, per discrezione e rispetto.
 
Donatella Colasanti, con la sua amica Rosaria, ambedue diciassettenni, vennero invitate nel 1975 a trascorrere un Week-end al Circeo, sul litorale laziale. Un luogo stupendo, del resto, frequentato di massima dai riccastri capitolini. Invitate da tre coetanei, figli del rampantismo pariolino, spolverando sotto i loro nasi di fanciulle innocenti, immaturi a tali esche fragranti, il profumo nefando della ricchezza. Loro ritennero di entrare nel mondo fatato dei “nababbi” che si vedevano in TV e presumibilmente iniziarono a sognare principi azzurri improbabili nelle fattezze dei loro accompagnatori. Ma questi erano invece tre asini atroci, la cui ottusità porcina sconfinava nel sadismo. Così le massacrarono dopo averle stuprate per trentasei ore…
Tronfi e allegri nella loro subumana baldanza, se ne andarono a rimpinzarsi in una delle loro tante residenze, lasciando l’auto parcheggiata sotto casa, con nel cofano le due povere morte, nude, insanguinate e insaccate in due plastiche della spazzatura. I tre boia microcefali non s’accorsero neppure che Donatella aveva solo finto di morire, ingannandoli, loro miserabili macellai citrulli, con la scintilla del suo genio, pur così atrocemente provato.
E così vennero trovate. Così finì la visita all’inferno della mia amica.
Ma le vite di tutti e cinque finirono lì. I tre idioti finirono in carcere o peggio. Rosaria era morta. E Donatella se n’è andata anche lei adesso, con un cancro al seno, in cui è impossibile non ravvisare il finale atroce della storia di una notte disumana, che avremmo tutti preferito non dover raccontare mai…

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