Scritto da © ferdinandocelinio - Ven, 03/02/2017 - 04:59
vorrei non sentire più
quel rumore sordo degli zoccoli
di legno che nella baia di Cefalù,
all’ospedale, venivano per tirarmi il sangue
e un po’ di anima, dal corpo, per mestiere.
vorrei non vedere più
le pareti bianche della sala
d’aspetto dal dottore,
con l’odore di buono, nell’aria,
che poi buono non è, perché
niente è buono in questa vita, nell'inverno.
vorrei un passato inconsapevole
di religiosità ottusa verso
le Divinità contraddittorie di ogni religione,
il Dio di Abramo e l’Allah santo di Maometto,
il Budda, il Sai Baba di Sathya,
il Ra d’Egitto,
come i fiori con la luce del giorno,
e non i canestri alla Juvara
e le scopate parossistiche
con ragazzine distratte e malvestite e semplicemente carine.
vorrei la forza fisica di un uomo primitivo,
e zero conoscenza, zero logica, zero filosofia,
solo un pastrano pesante
per ripararmi dal freddo
e un coltello che saccheggi le ossessioni,
in questa rogna suburbana
di supermercati e cartolerie.
e vorrei non conoscere la morte,
non conoscere mai il suo significato,
morire semplicemente un pomeriggio
di routinaria apatia
leggendo una rivista rosa
coricato nel letto,
ignorare
che quel mio corpo ancora
vivo e pulsante
finirà inutile in mezzo alle radici di un pino,
e si farà un gran baccano quel giorno,
il prete santificherà la dissolutezza
della mia vita appena finita
e le donne, in nero, piangeranno
il corpo morto di quest’uomo sfortunato;
ci saranno canti e grandi ghirlande commemorative,
il rito funebre sarà perfetto, il dolore giusto, i lamenti misurati.
poi calerà il silenzio, il mondo continuerà ad andare avanti,
come sempre, e ogni desiderio resterà attaccato alle labbra,
sulle carni rigide divorate dai vermi.
sapete che c’è? che qualcosa di buono,
forse, al mondo, esiste, e non possiamo
lasciare che la morte la vinca sulla vita,
non dobbiamo,
come questi piccoli pensieri
che si alzano sull’orrore, cantando,
e disegnano parole, la vita che c’è sotto.
scolpitela, scovatela: la poesia è l’unica cosa veramente buona,
in quest'ovatta consegnata alla notte
che è la condizione umana.
quel rumore sordo degli zoccoli
di legno che nella baia di Cefalù,
all’ospedale, venivano per tirarmi il sangue
e un po’ di anima, dal corpo, per mestiere.
vorrei non vedere più
le pareti bianche della sala
d’aspetto dal dottore,
con l’odore di buono, nell’aria,
che poi buono non è, perché
niente è buono in questa vita, nell'inverno.
vorrei un passato inconsapevole
di religiosità ottusa verso
le Divinità contraddittorie di ogni religione,
il Dio di Abramo e l’Allah santo di Maometto,
il Budda, il Sai Baba di Sathya,
il Ra d’Egitto,
come i fiori con la luce del giorno,
e non i canestri alla Juvara
e le scopate parossistiche
con ragazzine distratte e malvestite e semplicemente carine.
vorrei la forza fisica di un uomo primitivo,
e zero conoscenza, zero logica, zero filosofia,
solo un pastrano pesante
per ripararmi dal freddo
e un coltello che saccheggi le ossessioni,
in questa rogna suburbana
di supermercati e cartolerie.
e vorrei non conoscere la morte,
non conoscere mai il suo significato,
morire semplicemente un pomeriggio
di routinaria apatia
leggendo una rivista rosa
coricato nel letto,
ignorare
che quel mio corpo ancora
vivo e pulsante
finirà inutile in mezzo alle radici di un pino,
e si farà un gran baccano quel giorno,
il prete santificherà la dissolutezza
della mia vita appena finita
e le donne, in nero, piangeranno
il corpo morto di quest’uomo sfortunato;
ci saranno canti e grandi ghirlande commemorative,
il rito funebre sarà perfetto, il dolore giusto, i lamenti misurati.
poi calerà il silenzio, il mondo continuerà ad andare avanti,
come sempre, e ogni desiderio resterà attaccato alle labbra,
sulle carni rigide divorate dai vermi.
sapete che c’è? che qualcosa di buono,
forse, al mondo, esiste, e non possiamo
lasciare che la morte la vinca sulla vita,
non dobbiamo,
come questi piccoli pensieri
che si alzano sull’orrore, cantando,
e disegnano parole, la vita che c’è sotto.
scolpitela, scovatela: la poesia è l’unica cosa veramente buona,
in quest'ovatta consegnata alla notte
che è la condizione umana.
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