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il lavandino del bagno di servizio della casa di mia nonna

il lavandino del bagno di servizio della casa di mia nonna. quando mi lavai le mani, dico. fu come se quel lavandino gorgogliando e spruzzando gialla ferrosa potente acqua di rubinetto potesse rivelarmi il manicomio che c’avevo nell’anima. ho sempre avuto qualche problema con i rumori ordinari. mia nonna che mi vedeva pallido pallido la mattina di Natale di 21 anni fa, quando il coniglio sfrigolava nell’olio dentro la casseruola e mi faceva: “ferdinando, la natura vuole che ce li mangiamo, noi, gli animali”. non lo capiva, mia nonna, che del coniglio proprio non me ne importava, che fossero crepati pure tutti i conigli della terra, e i capitoni, e che gli antilopini d’Africa diventassero buona e succosa selvaggina. i quattordici anni successivi sono statti tutti una lunga e divertente attesa del disastro. io che vivevo e sprecavo le mie energie con la potente forza dissipatrice che c’aveva la fanciullezza. era solo in dei momenti profetici, quando chiudevo fuori le quisquilie adolescenziali e mi trovavo faccia a faccia con la parte più dolorosa di me, che potevo intravederla quella mia futura vulnerabilità. il lavandino, dico. un gingillo ceramico dalla dubbia validità introspettiva. eppure, molte volte, sono le facezie più insignificanti che attivano le sinapsi a una più vera e profonda comprensione. il lavandino caccia fuori l’acqua con un getto poderoso, inizialmente stentando, poi liberandosi in una cascata dal rumore fragoroso. quel rumore. il biancore opaco misto a frammenti beige del getto violento. i mille moti dell’anima che salgono fin nella ghiandola pineale. catastrofe. reclusione. la voragine del mio cuore. tutte le voragini del mondo .
 
*
 
sono stato un discreto giocatore di nascondino. i miei amici mi chiamavano iguana, per via della capacità di mimetizzarmi con l’ambiente. c‘ho sempre tenuto, io, alla mia invisibilità. i migliori anni li ho passati a cercare angoli bui in cui nascondermi, pezzi di anima dove conservare  una natura immutabile, il mio Io birichino che canta e che sa sognare, quello che c’avevo fin da bambino, quando giocavo a nonno Umberto e zio Tiziano con mio fratello. ora, la voragine ha rivelato un fondo canceroso. pezzi marci. frammenti d’Anima-Dio spezzati dalla velleità. il mio sogno vive e muore nel cotone. voglio dire, il cotone è morbido e i sogni vi si sciolgono come dentro le nuvole. ma col cotone si fa anche l’ovatta, che ammorba i miei punti vitali e non gli vanno a genio i sogni, li spezza in una catarsi d’appannamento perfetto. non credo mai alle storie che abbiano un finale dolce. io sono un potente melodramma. sono una foglia di thè ad un passo dal finire nel trita-foglie-di-thè. c’ho il mio bell’aroma, insomma, ma la gente usa consumare ciò che più è bello, da queste parti. usa avvizzirlo. è la buona regola di una cattiva società. poi basta. come diceva un vecchio saggio che ho conosciuto da bambino “tutto è parziale, quel che finisce bene”, dunque salud, senza arrampicarsi nella cuccagna della speranza, ma facendoci più in là, e aspettando, qualunque cosa ci sia da aspettare.     

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