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nell'anima dell'incontrovertibile

dopo la pazzia, ci fu la quiete, poi una nuova pazzia, poi niente, bolle d'aria nel cervello come una guarnizione. il problema non era estraniarsi, nulla di male a farsi fuori da sé. il problema era condividere. continuavano ad andare e venire dal mio appartamento, rosei sani mansueti prototipi dell'italiano medio, venivano e volevano far su quattro chiacchiere, visitare il vecchio dritto celinio, raccontare il miracolo della vita, i figli, le occupazioni, le tessere premio dal benzinaro, lo stato politico attuale, le intenzioni di Cristo, la minaccia del diavolo, la Cina, Maria De Filippi, va te faire foutre. e io, il bravo celinio, aprivo le porte "ho finito la birra. Pinco, hai portato la birra?". ma poi diventavo molesto, alla sesta o alla settima birra, li umiliavo sul piano spirituale e, a volte, su quello fisico, volgarmente e rozzamente, agitando i braccioni sudati per affermare le mie ragioni, bestemmiando e ruttando e aggredendo, perché io ero il migliore di tutti, io ero ferdinando celinio.
con le donne era lo stesso. le trovavo molte volte pericolose, molte volte mediocri, non ero sempre gentile, ma certune avevano tutto nei punti giusti, tanto, troppo: cervello, gambe seno, occhi, labbra, tutto. e il modo di vestirsi, e il modo di camminare; non era come se stessero semplicemente camminando, era come se il terreno sotto i loro piedi fosse un infinito tappeto rosso, e loro che dimenavano i fantastici culi su dai tacchi alti, possedendo lo spazio, aggredendolo, bellissime, sublimi, e tutto il resto era solo uno sfondo, non contava un cazzo il resto, niente contava, solo loro contavano.
io ero un'abberrazzione, una bestemmia. pazzo ma non nel senso usuale del termine, più rabbiosamente pazzo, criticamente pazzo. la gente non m'è mai andata a genio.
nell'89 mia madre combinò un guaio, il più grande cortocircuito della sua vita da piccolo-borghese, il sole doveva picchiare forte quel pomeriggio e un'inserviente, una donnaccia, guardando la testolina dal vetro dell'incubatrice, avrà esclamato "oh, ma com'è carino sto bambino!". certe cose succedono nello spazio d'un attimo. il cazzo che entra e con l'amore d'una vita sventra la fica. lo spermatozoo. non gli altri 5 miliardi, quello spermatozoo. il sapore dolciastro della felicità. il dolore. la pazzia. 
c'è una sensibilità strana negli occhi d'un pazzo. ora, non che tutti i pazzi siano necessariamente poeti, ma... ma... vi deve essere una spinta irrazionale, una spinta che trasfigura l'ovvio, per così dire, per mettersi a scrivere poesie, oltre ciò che si vede, quello che tutti vedono, intendo. io ero nato ferdinando celinio, al secolo, luigi ferdinando celinio, e in un modo o nell'altro, paradossalmente, avevo negli occhi la luce opaca e rivelatrice dei peggiori dannati. era tutto dentro di me, prima ancora che uscissi dal guscio, prima ancora della vittoria nella dirittura d'arrivo sul resto dei gareggianti, tutto dentro, tutto, e le poesie sono arrivate per come era scritto, e anche il dolore, e le risate, e l'odio dipinto in quella faccia non troppo ordinaria, tutto era scritto sui gradini di quella doppia elica che sanciva la di ognuno unicità, milioni di codici, frammentari, indecifrabili, la vita spalmata su un crostino d'incertezza, l'ombra di Dio, il futuro.
ora, non è semplice chiudere un discorso del genere. certe cose andrebbero lasciate lì, senza cercare di sbrogliarne la matassa. sono miracolose per questo, sono più vicine all'emozione pura di tutto il resto.

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