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piccola poesia sul cambiamento

già, sono diverso
dai miei contemporanei
e quasi assuefatto
nel sentire
la naftalina di quest’appartamento.
le strade mi hanno bruciato
i talloni, l’amore mi ha
insegnato a morire,
il cambiamento siede
sulle mie ginocchia
come la puzza dei secoli.
ah tutti quei pomeriggi vacui
della giovinezza,
così sacri, e ora i ferri
delle malinconie scadenti
che perforano
le tende del mio colpo di stato;
e le vergini di piazza Duomo,
rotte di incattivimento, perdute, molle
che puzzano di smog
e insegnano ai ragazzi
la matematica della carne;
e i vecchi amici,
gli amici di una vita,
tormentati da rabbie comuni
in prigioni comuni,
quanto vorrei vederli, adesso,
disimparare ancora
in ribellioni acerbe di una volta
e novità di sigarette.
ah sapessi indirizzare la mia vita
verso la leggerezza,
e non vedere
questo falco hypoleucos
svolazzare tetro
sopra la mia testa.
non è cambiare
che mi spaventa,
sebbene ci si qualcosa
del cambiamento
che consideri terribile
(è come rimpiazzare te stesso
con tanti altri te stesso –
i tessuti che si sfaldano,
le cellule che si rimpiazzano,
i pensieri che muoiono
e rinascono mutati-
alla fine, chi sono io?),
no, non è il cambiamento
il mio vero problema;
è più questo tempo incerto
di scarlattina
che ci conduce nel limbo,
queste fredde alcoliche sere
in cui apatie senza sonno
destano una morte iperattiva.
è la mancanza
quello che ci frega.
e la scrittura? e l’estro?
ma dai!, cosa dovrei farmene
di questi molli scarabocchi
che spaccio per poesie!
dovrei forse considerarli
come una specie di scavo introspettivo?
bene, sappiate che la psicanalisi mi da la nausea.
poi
leggo di soldati che
hanno amato Camus,
di lavavetri
laureati in medicina,
di tipi sopraffini,
gente come Hemingway o Stalin,
che credono che
strane presenze
gli diano la caccia.
è molto strano,
non vi sembra?!
dico, l'illogicità delle cose.
quanto imprevedibile
possa essere
il futuro
quando non viviamo che
la febbre del momento.

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