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storia di un tempio e di due mani

quando spararono a J.F.K. mio nonno venne preso in una compagnia d’avanspettacolo come prima voce. esattamente 35 anni 8 mesi e 7 giorni dopo, nacqui io. il venticinque Dicembre di 1988 anni prima, invece, nasceva un bambino, nelle alture gelate di Betlemme, che avrebbe cambiato la Storia dell’Umanità. io non ho cambiato la Storia dell’Umanità ma ho comunque una storia da raccontarvi.
voglio parlarvi di mio nonno. mio nonno ha la passione per il canto. su facebook ha scritto: Rosario Barra, cantante. ha una voce fluida, precisa e canta soprattutto canzoni latine. non ha sfondato come Julio Iglesias perché non era Julio Iglesias, ma ha fatto dei matrimoni insieme a Mario Merola, ha conosciuto Lino Banfi, Franco Franchi e un piccolo e ancora acerbo Gigi D’Alessio. a volte mi regala un pacchetto di Rotman’s. mi viene incontro, sorride con aria paternalistica, e mi dice: “ferdina’, t’ho preso le sigarette”. io fumo John Player Special blu morbide ma lui mi compra sempre le Rotman’s, forse perché da giovane le fumava lui, e io lo ringrazio per l’omaggio.  non credo necessariamente agli strascichi ereditari sebbene ci sia qualcosa di mio nonno, qualcosa di apparentemente irrilevante, che mi sento addosso della sua personalità come un’incerata. lui tende ad innalzare costruzioni debolissime, quasi come di sabbia, e gioca a farle reggere il più a lungo possibile nell’equilibrio sottile tra possibilità e impossibilità. è questo il gioco che amano fare tutti i sognatori, non credete? ecco, io di mio nonno c’ho proprio questa tendenza all’astrazione, questo senso quasi irresponsabile di credere in ciò a cui un’altra persona, una persona concreta, mettiamo, non crederebbe mai.
dunque la storia è che per via di questa mia irresponsabilità ho creduto che le mie mani fossero miracolose. che con le mani avrei potuto costruire un tempio sacro, olezzato d’incensi e rose di campo, dal pavimento marmoreo, bianco, lucente e immacolato , con al muro incisioni di vita agraria, laminate di ori, tempestate di polvere purissima, dal colore della crema quando è ancora fresca, dal sapore della possibilità; il tempio dove i mei dolori fossero dati in sacrificio a un Dio-Altare capace di santificare le buone intenzioni, bruciati come una vecchia strega durante l’Inquisizione, fatti diventare cenere da cui risorgere ogni volta, sempre più irrobustito, completamente calato in questa strana magia. questo posto, che aveva dimora nella mia anima, era accessibile solo tramite precisi trucchetti; e per metterlo su, sto palazzone, ci volevano strumenti che non puoi trovare in un negozio in centro città. ci volevano carrucole e sacconi zeppi di cemento, ci volevano cazzuole, chiodi, metri, mattoni forati dal peso leggero ma dalla potente resistenza, che fossero tutti, in qualche modo, coperti da un’aurea santa. dunque questa è la storia di un tempio e di un paio di mani che si sono messi a costruirlo. forse, semplificando, è la storia di uno che voleva fare lo scrittore, che si credeva capace di farlo, e con un senso di auto-commiserazione non ha mai pensato alla fama o alla popolarità, voleva soltanto curare i suoi mali personali, sentirsi come quegli sciamani sud-americani che con il semplice tocco comprendono il problema, che vedono il dolore e lo sanno combattere, dalla saggezza quasi divina, dal potere straordinario.
così non mi sono mai coperto d’ambizione, ho solo creduto al potere della parola - immaginifico, straordinario- ma non volevo mica diramare il gomitolo di fili intrecciati che definisce la confusione del mondo, no, volevo soltanto salvare quel pezzo di anima, che splende e che ride, sepolta in un angolo nascosto di me; perché io un'anima ce l'ho e voi non potete comprendere le bellezze che essa cela dentro, fin quando non avrete conosciuto questa cosa curiosa che si chiama ferdinando celinio o non arvete letto le sue parole.                     

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