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su libero pensare, pazzia e normalità

ci sono cose perfette, dalle sfumature praticamente inesistenti, che strabuzzano la tua vita come dentro ad un lutto perenne. più vicino al lirismo dell’avventura, che a una comoda esistenza ordinaria, senz’altro la malattia mentale è tra quegli avvenimenti che, mondo è stato e mondo sarà, segnano un confine tra il prima e il dopo il manifestarsi dell’evento.  non vi è orrore in una cucina sporca che deve essere lavata ogni giorno come dentro una ruota per criceti, né in un lavoro noioso che non avete scelto, ma, converrete con me, che perdere il contatto con gli elementi cardine della comprensione, le cosiddette certezze manichee della ragione (il giorno e la notte, il bene e il male ecc.), potrebbe senz’altro diventare l’oggetto ideale per un grande film di Carpenter. ora, un pazzo non sa di esserlo, così dice un cliché probabilmente tramandato di generazione in generazione, ma, allo stesso modo, una persona normalmente ragionante, un ragioniere, mettiamo,  dovrebbe porsi qualche interrogativo circa il limite che divide la normalità, appunto, dalla pazzia. in soldoni, quanto la ragione dell’uomo medio, condizionata periodicamente da convenzioni sociali, e dunque valida finché una nuova convenzione non prenderà il sopravvento, è vicina alla verità dei fatti? è forse il libero pensare prerogativa unica dei soggetti prevalentemente irrazionali? voglio dire, se un ragazzo giovane, di robusta costituzione, sano e criticamente abile, pensa alla vita non come quel dono meraviglioso che, le sacre scritture, gli insegnati, i genitori, i preti, certa letteratura giovanilistica, gli hanno propinato, e dunque vive la stessa sganciandosi dalla dittatura socio-modaiola-culturale (cioè, non bada a come si veste, ha qualche difficoltà ad accettare che avere successo nella vita vuol dire essere intelligenti, lavora sporadicamente, non ama consumare, ma preferisce consumarsi (tanto poi il tempo ti consuma comunque), considera l’ipocrisia dei rapporti inter-personali disgustosa, e dunque non vuole fingere e non ama scendere a compromessi (anche se il primo compromesso è piangere dopo che si è usciti dall’utero della madre), rifiuta i giochi di potere e le gerarchie e non crede nella possibilità del cambiamento globale), questo ragazzo, quest’aberrazione, è da considerarsi pazzo? l’establishment crede di si. l’establishment crea idoli (barattoli di latta con braccia e gambe e capelli dalla forma strampalata) e modelli che guidano le masse a una omologazione ottundente e disumanizzante. la buona educazione viene confusa con convenzioni formali di maniera. e la maniera svilisce la sostanza, questo lo dico io. vi è in pratica, a mio pecoreccio avviso, uno svuotamento  di quelli che sono gli elementi più vitali, creativi, individualistici che permetterebbero alle menti più brillanti di brillare (e non in una gerarchia scolastica, accademica o lavorativa), dunque a buona parte della popolazione e a buona parte del mondo umano di sfruttare i propri strumenti in maniera pura, senza contaminazioni o con meno contaminazioni possibili. ma nella realtà sociale chi si sgancia dalle suddette restrizioni comportamentali viene bollato come pazzo, come caso particolare in un mondo che va tutto nella stessa direzione, e quindi disprezzato e il più delle volte costretto alla coercizione perenne. la cattiva società porta l’uomo al parossismo, alla paranoia, al delirio, e questa è senz’altro l’anticamera della vera follia. ma il libero pensare, il decondizionamento, la diseducazione (nel senso di disimparare le sovrastrutture impose) sono un’altra cosa.         

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