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va bene così

ferdinando celinio è un genio, ma nessuno lo ha ancora capito. lo diceva un venditore ambulante di patatine fritte che aveva letto il mio libro ‘biografia poetica (vera o presunta) di luigi ferdinando celinio, l’ameba’. il libro non è stato mai pubblicato. “celinio, questo pezzo è CINICAMENTE GENIALE” diceva qualcun altro, riferendosi al mio diario, oppure “spacca…spacca…questa è roba che spacca”. io mi sono sempre mantenuto sulle mie, talento o non talento, genio o fregnaccia, nel mio mondo minuscolo, fatto di bevute universali e di sogni piccoli, di libri zozzi, pornografici, aulici, immortali, nelle pareti gialle della mia cameretta, tra le bottiglie rovesciate e gli scontrini delle scommesse, in mezzo ai fili della corrente, agli acari, ai calzini vecchi e consunti, ai gingilli di 28 anni. la gente tende a etichettare tutto: genio o fregnaccia; bidone o capolavoro; puro, impuro; santo, dannato; sensibile, stronzo, mostro, caffettiera, angelo. non c’è mai occhio, invero, per quello che solo conta, alla fine:  la sfumatura. solo la sfumatura stabilisce lo scarto che passa tra l’eccezionale e l’ordinario. e spesso si parla di centimetri. molti scrivono poesie. tutti possono sentirsi poeti nella società della comunicazione.  ciò che conta è quello scarto, come le parole si susseguono per rivelare la verità. e quali parole si usano. vi sono poi dolori che non dicono nulla. non si può scrivere da dentro il cotone dell’agiatezza, ne sono più che convinto. e più la tigre graffierà, più i frammenti di cuore, devastati e imploranti, grideranno la necessità di essere schiaffati sul foglio, più quella poesia, quel testo, sarà autenticamente eccezionale, e sincero, e disvelatore.
alzo gli occhi per un attimo e guardo la condensa che s’è incrostata sul soffitto. un muro mi separa dalle stelle e dalla puzza di zolfo che violenta l’atmosfera. guardo le mie pareti: riproduzioni di Klimt, Picasso, Donatello, Wharol; e poi un quadro di Paperino, una foto di mia sorella e due scritte: ‘l’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante’ Bertrand Russel; e ‘quando un uomo con la pala incontra un uomo con la pistola scarica, l’uomo con la pistola scarica è un uomo morto’ ispettore Coliandro. penso al dolore come una cosa intessuta di fili, peli, fauci di squalo, fogli lacerati e frammentari che non dicono niente. il dolore è assurdo perché esiste. io sono assurdo dentro questa cosa assurda. e penso che tutto sia assurdo, e anche i miei occhi lo pensano, quando nel silenzio dei momenti peggiori, mi lasciano quella cosa secca e salata sulle guance, e le mie dita, invece, cercano sempre l’anestesia o l’elettroshock, ed è per questo che si mettono a scrivere o afferrano il bicchiere o le chiappe immacolate di una femmina qualunque. questa sensazione d’inutilità che scarnifica l’essere umano, è tutta nelle mie dita e nel mio dolore.
ma, diamine, sono più vivo di uno scoglio di Punta Faro e questa è già una cosa, e nella fretta di scrivere questo pezzo qui, ho dimenticato di accendere la lampadina. fatto. ora c’è questa luce minuscola, che colora di giallo l’aria condensata dal fumo delle sigarette. è qualcosa. è tanto. non chiuderò con un finale glorioso, le cose finiscono sempre male, volenti o nolenti, e forse va bene così. o forse no.

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