Su Carver (Cattedrale e altri racconti) | Recensioni | Giovanni Perri | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Su Carver (Cattedrale e altri racconti)

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La forza di uno scrittore risiede nella capacità di superare lo scarto tra la propria ambizione monumentale e il prurito che sente dietro la schiena.
Carver è conosciuto al mondo per essere uno scrittore minimalista. Minimalista è la sua visione del mondo, essenziale e paga; l’esistenza al suo grado minimo (la vera esistenza) capace di includere e allargarsi a tutti i valori possibili: di vita, di morte, di noia, di entusiasmo e amore.
Per lui la realtà era così pregna di significati che bastava da sola a restituirsi carica di tutto il suo peso. Bastava registrarla a trecentosessanta gradi la vita, così densa si suoni e fardelli, di paure e silenzi e inquietudini.
Ogni accadimento sentiva il dovere di renderlo vivido e immediato, condensato in uno stile asciutto e secco, parco di inutili orpelli e coloriture di sorta. Si direbbe di lui come per uno scultore, che scolpiva figure per via di levare ( a ciò si deve anche l’ostinazione del suo editore Gordon Lish che tagliava e spesso spezzava i suoi racconti fino a renderli incompleti ma inesorabilmente esemplari). Non aveva nei confronti della realtà nessuna soggezione o ammirazione particolare che avrebbe finito per rinchiudere i suoi racconti nella strettoia di qualche presunta gerarchia. Non c’era per lui una storia privilegiata e in più non aveva nessuna ambizione a raccontare. Carver raccontava perché sentiva che questo era quello che sapeva e che doveva fare. I suoi occhi si posavano e resistevano con accanimento sulla povertà o sulla banalità delle cose che erano li e basta, degne di comparire indistintamente nell’immaginazione di un bambino o di un filosofo. Il gesto più scontato, l’osservazione più ovvia riusciva nella sua resa letteraria così scabra ed essenziale a raggiungere una tensione scenica di altissimo valore poetico. Perché poetico era il dolore che gli risaliva negli occhi (già gonfi d’alcol) e gli premeva nelle tempie come un mal di testa. Dolore muto e impassibile; fermo come ferma spesso è la vita, silenziosa anche nel lamento, impigliata nel tempo che scorre, senza dir nulla e senza nulla fare.
Il racconto della vita per Carver partiva da un interno piccolo-borghese, dallo squallore di un garage, da un centro commerciale; da un pub dove si siede soli accanto a una birra e si stringe amicizia con la cameriera di turno; dallo sguardo malinconico e meditabondo di una giovane coppia seduta su un divano a guardare la televisione; da una ceneriera sporca; da una tubatura rotta; da una dentiera lasciata in bella posa dentro un bicchiere d’acqua sulla credenza d’una sala da pranzo.
Vengono in mente certe pitture fiamminghe del quattrocento. Viene in mente Hopper, Michelangelo e Duchamp. Come un buon antropologo Carver esplorava l’umano partendo dai frammenti che lo compongono per situare il suo sguardo sulle fessure più angolari e nascoste o ignorate e capire cos’è diventato l’uomo in se stesso e nella catena di relazioni e trasformazioni sociali che lo coinvolgono e lo definiscono.

Con Cattedrale i racconti di Carver assumono una dimensione nuova. I rigidi schemi minimalisti di Lish e del suo mentore letterario John Gardner si addolciscono, vengono piegati a un’esigenza poetica più ampia e articolata, a una visione più complessa delle cose. Carver decide di entrare più analiticamente nelle pieghe della realtà. La scrittura si fa veramente architettura.

E’ un giorno come un altro nel mid-west americano. Marito e moglie non hanno molto di nuovo da raccontarsi. Si potrebbe dire che la vita gli scorre senza troppe accensioni. Una sera, un amico della moglie, un vecchio amico, decide di far loro visita e di trattenersi per una notte. E’ cieco, e questo mette il marito in un certo imbarazzo. Il cieco arriva e con lui i ricordi, l’affetto, anche la sofferenza e il dolore (nascono situazioni che aprono abissi di umanità). Dopo cena siedono tutti e tre sul divano. La moglie si addormenta, è quasi notte. In televisione danno un documentario sulle cattedrali. Il marito e il cieco restano soli a guardare il documentario. Il cieco non sa come sono fatte le cattedrali e a un certo punto il marito gli chiede: “ma tu ce l’hai un’idea di che cos’è una cattedrale? Cioè di che aspetto hanno? Capisci? Se qualcuno ti dice cattedrale, hai un’idea di che cosa sta parlando?
La cattedrale qui non è solo ciò che l’uomo non riesce a vedere o a capire, ma è ciò che l’uomo desidera e chiede, ciò che spera, che insegue e che sogna. E’ il desiderio di approssimazione; è la negazione delle cose. Nel buio della cecità Carver ci porta per mano e ci mostra come la vista sia semplicemente una categoria dello spirito. Una condizione mentale più che fisica. Vedere, spesso è sentire e capire, sentire dentro, e magari immaginare, fantasticare.
A un certo punto il cieco chiede al marito di prendere carta e penna e di aiutarlo a disegnare una cattedrale. Questa scena finale del racconto è di una potenza lirica impressionante. Si fatica a stargli dietro a una scena del genere. Il marito e il cieco disegnano insieme una cattedrale e a un certo punto il marito chiude gli occhi e continua a disegnare ad occhi chiusi. E lo fa come fosse un gioco o al contrario una cosa serissima, la più importante che gli sia capitata nella vita, e sente in quell’attimo una responsabilità morale che diventa dovere, urgenza, un fremito che gli corre lungo la schiena. Ed è forse solo ora che crede veramente di iniziare a vedere. Solo da quel punto li, capisce, che può cominciare veramente l’uomo.
Giovanni Perri 

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