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Andare altrove

Nel suo famoso libro, Stephen Hawking ci induce a constatare come la vita che conosciamo sia l’unica opportunità per la vita stessa di esistere. Il mondo tridimensionale che ci accoglie infatti non potrebbe prevedere la vita se fosse soltanto bi-dimensionale. In tal caso, ci fa notare, gli eventuali esseri viventi non potrebbero disporre, per esempio, di un sistema circolatorio, poiché, non dandosi la profondità, ogni vena sarebbe un limite invalicabile tra i due tessuti entro i quali dovrebbe incanalarsi.
Ecco, in una forma tale di vita, soltanto “grafica”, tutto ciò che accadrebbe perderebbe il suo appeal sensoriale. Anche un mostro spaventoso e gigantesco, lo si potrebbe semplicemente abbattere trapassandolo con un dito da parte a parte. E lui non potrebbe neanche vederci, non possedendo il suo occhio piatto la facoltà di “uscire” sulla profondità. E poi, quale sarebbe lo spessore del mondo piatto? Zero? Nullo? Sarebbe fatto di luce, come un video? Ossia, senza spessore?
Questi paradossi ci servono ad un unico scopo, quello di cercare di indagare e afferrare i nostri. Nulla ci dice che il dogma della profondità sia in sé esclusivo e definitivo. Nulla, che esso escluda dimensioni ancora più complesse e in sostanza dominanti sulla nostra, come noi “dominiamo” il mondo piatto. Anzi, la scienza dei quanti e dell’antimateria ci assicura il contrario. Un contrario indimostrabile, ma certo. Ora, sarebbe straordinario riuscire anche soltanto a pensare un’alterità spaziale cieca e ignota combaciante con quella qui e ora della nostra esperienza sensibile.
Un altro mondo, un altro universo situati non qui o altrove, ma pure nelle stesse stanze in cui l’essenza umana si è dipanata come storia. Un luogo catacombale, ctonio, che si disvolge non come storia, ma come un’altra universalità coincidente, che contiene anche il nostro cosmo, come quello piatto è inscritto come “grafica” nel nostro. E un luogo dove non c’è la storia, si fa fatica persino a pensarlo come luogo. È un ambito, una sfera entro la quale è dato alla storia di farci esistere, ma lei non è “storica”, ossia non è. Sta, stabile e tetragone, sopra il nostro ente tridimensionale, e forse è lei la “madre” di ogni sopra-sensibilità, per dirla con Hegel. C’è, esiste, sta qui questa porta dell’ultramondo? È dietro, davanti, sopra e sotto di me, mentre io passo accanto con la mia clessidra incorporata che mi fa “essere per la morte”? Una cosa oltre la porta del tempo?...  
Vi sono altri spazi, altri anditi incompenetrabili oltre quello in cui viviamo. E non sono neanche “spazi”, non sono “essere”: non bisogna dire che “sono”. Noi “siamo”. Questa alterità va oltre e in più non sta dentro il nostro spazio-tempo. Viceversa, è quest’ultimo, sembrerebbe, ad essere sgorgato dal grembo dell’alterità. Potrebbe essere Dio, o l’inferno, o il nulla. Cosa che rende nulle anche le opzioni del credere o dell’ateismo. Supponiamo l’esserci di un altrove senza il tempo, forse a-dimensionale, tuttavia qualcosa di gigantesco, di inimmaginabile. Che è e non è qui e ora, perché il qui e ora spazio-temporale gli sono alieni. Che potrebbe magari esser relazionato alla coscienza, e in tal caso sarebbe Dio. Oppure no, si tratterebbe di conseguenza di alcunché di perpetuo e senza senso, come un orologio senza ore. Un altrove che non è altrove, ma che siccome non è e basta, non è neanche qui, o fuori. Tuttavia esistiamo all’interno delle sue viscere arcane e così come non potrebbe esistere il “piatto” senza noi, materia volumetrica espansa, così non sarebbe dato il “noi” senza l’altrove.  
L’isola che non c’è, il dove di nessun dove. Chissà perché mi sorge ora il dubbio che l’altrove sia composto soltanto di grammatica …?

Casomai di matematica, avrei dovuto aggiungere. È la matematica che opina altri mondi dentro e fuori quello visibile, tangibile, odorabile. Ma qui mi interessa appunto il cosmo opinato, non quello dimostrato. E questo perché tale interesse risale ad una intuizione basilare che credo di poter reputare condivisa, in quanto ciò che sempre ci ha affascinato di tali alterità, possibili o insensate che fossero, è sempre stato un recondito sentore di affinità col nostro mondo interiore.   
Il nervo centrale di tutto è che comunque noi siamo creature e che dunque siamo sudditi del nostro corpo. Il corpo con le sue pulsioni, sovente oscure e indifferibili. Siamo nella signoria, alla mercé del corpo: lui lancia messaggi, ordini, diktat cui è impossibile sottrarsi. La natura agisce per i suoi fini imperscrutabili, impartendo direttive inflessibili ai suoi vassalli, noi, in grazia di ciò che ci ha accordato: l’incarnazione. Ma il fatto è che l’uomo non è il corpo. Non siamo natura, pur movendo e necessariamente avanzando per la sua intercessione. E anche se in fondo al corridoio c’è la morte, l’essere per la morte- che non è essere, è esistere.
Facendo un passino indietro (1), torniamo al dato dimensionale. Consideriamo ancora quella dimensione subordinata alla nostra: un qualcosa bi-dimensionale, un disegno magari. Un esagono, ecco. Poniamo un disegno di geometria piana, un esagono regolare, forse la figura più misteriosa. Ora, cos’è, com’è fatto questo esagono? È disegnato? Sì, è disegnato su un foglio, quindi è piatto. Ma il foglio ha uno spessore e questo spessore una profondità: è convenzionale l’idea della piattezza: o il disegno è soltanto immaginato, o ha spessore, il che comporta la negazione della bidimensionalità. Viviamo dentro il pregiudizio: non conta quanto qualcosa sia grande o piccino. Anche un minimo spessore, un capello, al microscopio diventa la gomena di un transatlantico, e sulla scala delle grandezze conosciute noi siamo molto più estesi che contratti. Comunque, questa figura, l’esagono, è dentro il nostro “cubito” spazio-temporale. Possiamo vederlo, non lui noi. Ma entrarci non possiamo. La profondità non può accedere alla geometria piana, può solo vederla, percepirla. Quest’esagono sta fermo? No, nulla di conosciuto è in tale condizione. Si muove con noi, nel nostro cosmo tridimensionale. Quindi, dobbiamo arguire che le dimensioni maggiori trascinano con sé le minori? E questo accade anche al nostro mondo? C’è una dimensione maggiore a quella spazio-temporale da cui questa è visibile, è percettibile, ma non penetrabile? Qualcuno, qualcosa è in grado di guardare a noi come forma? E come si dipana questa forma? Come una successione di disegni mobili, simili ai nostri disegni geometrici immoti? Come un cartone animato che si può vedere, immaginare, godere da “fuori”? Lo spazio-tempo è come una serie infinita di scatole piene di rappresentazioni di quello che per noi è realtà? La realtà è rappresentazione?
 
L’altra immensa incognita (2) è il principio di gravità. La materia esercita attrazione, i corpi si attraggono l’un l’altro e tutto il sistema si chiama  la gravitazione universale. Una mela che ci cade in  testa ci ammacca col suo peso. Ma il suo peso non è peso, è massa e questa massa, attratta dal sottostante suolo, assume peso e consistenza. Perciò contunde, batte, fa male. Se fossimo su Giove, che è trecento volte la Terra, ci farebbe trecento volte più male. E va bene. Ma ora c’è questo: lo spazio-tempo è diventato un oscuro immenso lenzuolo teso sulla volta del cielo. Le stelle attaccate sopra, come puntine luminose, ci “pesano” dentro, lo increspano e, come un sasso nell’acqua, ci fanno rotolare intorno tutti gli oggetti vicini: così il sistema solare. Allora pesano!, non sono solo massa. Già, ma pesano su cosa? Sul lenzuolo? Dunque lo spazio-tempo è questo drappo nero, o questa rete, volendo, in cui il tempo stesso è intrappolato, per il che è impossibile gettare uno sguardo là oltre. Oltre ci sono forse altre dimensioni, dalle quali magari lo spazio-tempo è visto come una striscia sottile, una linea orizzontale, un taglio dentro l’altrove. Non si sa. E magari il lenzuolo è piatto e ci pare profondo solo perché viviamo dentro quello spiraglio, che per noi è infinito … Così, magari, forse, tutto quell’immenso spazio vuoto, non è spazio, è qualcos’altro. Una forma, un disegno, una linea. O uno scaffale, una biblioteca esagonale, come profetizzava Borges. Con dentro l’enciclopedia del cosmo.
Infine, tutte queste domande approdano ad una sola e sicura “grande teoria”: cioè che noi ci facciamo le domande, che ci chiediamo perché. Questa ostinazione riflette appunto quel quid che ci affascina: ci chiediamo perché, perché tutto ciò che ci viene dal firmamento assomiglia a un perché. È questa l’affinità, questa la connessione. Sentiamo che in tutto ciò deve averci giocoforza a che fare la nostra intelligenza, per somiglianza, per simpatia. Avvertiamo nell’immenso meccano spalancato davanti a noi l’”architetto”, l’artefice, il carpentiere che lavora identicamente a come lavora il nostro discernimento. Come si trattasse di alcunché di compreso e messo in atto. Come una “pietà” di Michelangelo.

 Ultimo capitolo: in cui riassumo: siamo nella dimensione spazio-tempo. L’essere si germina al suo interno. Non è l’unica dimensione- per esempio, sappiamo della bi-dimensione, quella “grafica”, come l’abbiamo definita. Ci dicono della esistenza di molte altre, fino a 32 dimensioni, di cui molte costituite probabilmente come filamenti sub-atomici. Ma non si può guardarci dentro: magari dentro a quel milionesimo di atomo si spalanca l’infinito, ma non è dato sapere- neanche se c’è quel milionesimo!. Il tempo, ci dicono, si articola come una rete, o un lenzuolo, sul quale “pesano” letteralmente i corpi celesti, stelle, pianeti eccetera. Di modo che questi creano come dei risucchi, nei quali i corpi minori vengono ingabbiati in circolo da quelli maggiori- il sole, i pianeti.  
Traggo queste conseguenze: ciò che vedo è il tempo, non lo spazio. Quello che dai tempi dei tempi appare come vuoto, come nulla, invece è qualcosa, cioè è il tempo. Tra me e quella chiesetta lassù, in cima al Bisbino, non c’è una linea d’aria di un paio di chilometri. No. C’è il tempo, la medesima sostanza su cui poggia il sole, facendola infossare e tirando quindi a sé i pianeti, Terra inclusa. Questa dimensione, tale essendo, viene spontaneo di pensarla avvistabile, percepibile dall’esterno: e come si vede il tempo dal di fuori? Mah … E che cos’è il tempo, dal quale non posso sporgermi a gettare uno sguardo sulle altre 30 dimensioni, salvo la bi-dimensionalità? Un velo? Una specie di liquido in cui viviamo immersi come pesci nel mare? Una sostanza, come si diceva, che oscura ogni altro dove in virtù del fatto che è lei stessa a fornire, creare, costituire il “dove”? Un immane liquido amniotico in cui galleggiamo inconsapevoli, convinti d’essere già nati?
Il tempo è sostanza. È questo il nervo assiale d’ogni ordine razionale possibile. Una sostanza imperscrutabile che, parimenti a quella vaticinata dagli antichi padri greci, forma, informa e conforma il mondo verosimilmente non da dentro, ma dall’altrove.  
 

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