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Clivo di Scauro

Un’idra multicefala  s’agita informe  sotto l’implacabile abbraccio del Dio-sole capitolino. Non conosce meta, sembra, e vagola e pullula caotica come fosse acefala, nonostante la miriade di teste che le formicolano addosso. È il grande rettile scempio del vagabondaggio di massa, l’ottuso, godereccio, spendereccio inganno di mercanteggiare la “grande bellezza” col semplice riscatto monetario. Ma la bellezza non si compra e il turismo di “mandria” non riscatta alcunché, neanche la propria irremissibile miopia. Bisogna andarci cauti. Non farsi ingoiare dal mostro. Così mi avvio placidamente dentro la via letteraria, che mi spalanca quieta e dolce l’itinerario scritto ove immergere l’anima, assetata di bellezza e di Imperi.
Eccolo qua l’Impero Romano. A pagina 135 del sapere “voluminoso” che lo contiene. Oddio, è solo un pezzetto d’Impero Romano. Ma sufficiente. Ecco, non resta che far convergere il sapere e i nomi col vedere il loro contenuto. Non resta che la convalida intersoggettiva del soggetto che guarda, io, con il soggetto guardato, la bellezza. Così mi inerpico sul:
CLIVO DI SCAURO

Una salita cioè, il clivo, intitolata a un signore antico, Scauro, un Optimates dell’antica Roma, sposo della più nota Cecilia Metella. È una stradetta semi-sconosciuta, alle spalle del Colosseo, che sale sul colle del Celio costeggiando parte della bella Villa Celimontana. Vedo ancora la via di San Gregorio, ove s’ammassano senza permesso i giganteschi Bus delle mandrie d’insapienti, là sotto, che s’accalcano davanti all’illusione “turistica” di capirci alcunché dell’antichità calpestandola. E immagino la calca senza senso, sotto il solleone, di chi non vedrà quello che vede e non sentirà quello che sente. La vedo da sotto gli archi rampanti dell’antica chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, sotto la cui prospettiva appunto sale il Clivo, e, proprio sotto il primo arco, giro lo sguardo su una porticina con titolo. E il titolo è “Case Romane”.
Entro. mi inoltro. C’è un botteghino, è un museo. Procedo. È come penetrare in un cratere, vi si spalancano fauci di pietra che hanno qualcosa di remoto e grandioso. Ma non è una catacomba. Siamo sotto il corpo “latino” della basilica soprastante, tanto che un pilastro di sostegno taglia in due uno degli ambienti. Ma siamo entrati da Scauro e stiamo saggiando la sua way of life. Siamo sottoterra, ma ciò che ci viene incontro è un interno piuttosto abbiente, Ci troviamo dentro un’antica casa aristocratica della Roma repubblicana. Più di duemila anni fa, qui ci si trovava per passare serate tra amici, o cenare assieme per fare quattro chiacchiere spensierate. Le pareti trattate ad affresco ci presentano degli splendidi rossi geometrici, interrotti qua e là da riquadri iconografici, come quello della “Orante”, nella stanza omonima, o da figure zoomorfe, tipiche della tradizione romana. Una specie di meraviglia criptata sotterra in un nascondiglio della storia, ove per diciotto secoli le bellissime pitture che facevano “calore” all’accoglienza degli ospiti, in magari piacevoli salottini classici, si sciorinavano oscuramente solo ai topi e ai vermi delle viscere della terra.
Penso ai poveri sfigati, là fuori, impilati in file strabocchevoli sotto la siccità del sole romano, la “stinca”, solo per vedere ciò che non vedranno e udire la propria sordità…
Il nostro morente universo si appresta a mettersi in coda a rifocillarsi di briciole di fama, sull’ultima spiaggia del proprio lento morire. Che è appunto quella della fama, la quale, trovandosi fuori della portata dei suoi meriti e delle sue risorse, spinge quella massa indistinta sui cascami della fama eterna dell’eterna città. Come in un alito finale di smania d’eternità, o d’immortalità, l’umanità estrema del nostro mondo e del nostro tempo si prova ad artigliare la vita eterna di cose e persone altre per attutire il senso perduto della propria, mentre questa vacilla, incalzata dal pericolo e dalla irrilevanza. Il pericolo di un’altra decadenza affine a quella di quelle rovine, e l’irrilevanza di un cristallo, un’allegoria, o una ipostasi borghese oramai approdata alle porte del crepuscolo.
E la stessa bellezza di quella fama cui appendere gli ultimi fremiti d’immortalità, sfugge loro, accecati da tale frenesia, e li spinge in agoni turistici improbabili, a contendersi l’arroganza del loro vedere cieco, teso avidamente a predare l’eternità.  
 

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