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Colgo dal saggio sulla Lingua di Walter Benjamin (Angelus Novus) una metafisica assai inusitata nella interpretazione radicale dell’autore sui fondamenti della medesima: la lingua è la stessa potenza divina, e in quanto tale si identifica con il tocco creazionale di Dio e quindi crea ciò che nomina. La lingua è Dio, è Verbo, è Logos nominale, in cui la cosa è, viene in essere, in quanto si dà al nome. Essa non è, non sta, non abita che nel proprio nome, dal quale trae la sua essenziale concretezza.
E tale era, prosegue il ragionamento, la condizione originaria dell’uomo nell’Eden primordiale- un Eden in cui le cose eran chiamate ad un’esistenza paradisiaca, soltanto nominandole. Una condizione dalla quale l’uomo viene esiliato  a causa del peccato originale. Quello di aver attinto dall’albero del Sapere un discernimento tra bene e male, una facoltà di giudizio che, introducendo un criterio giudicante all’interno di tale perfezione nominale, la materializza, la fa esistere, non più come sogno verbale incondizionato, ma come cosa, simbolo e segno. Una conseguenza di ciò, secondo Benjamin, sta nella istituzione del Diritto, diretta emanazione del Giudizio. In tal guisa il Diritto è da lui giudicato severamente: finché avremo bisogno del Diritto per dirimere le nostre controversie, sembra alludere, resteremo asserviti ad una condizione primordiale, barbarica. E non potremo dirci “civili”.
Ora, stamane mi interrogavo sulla eventualità di altre forme di intelligenza, al di là del conosciuto, che avrebbero potuto o meno attecchire altrove nel cosmo, o nel tempo. Ne avevamo ventilato ieri la possibilità con un gruppetto di amici artisti. Io, che non credo mai a nulla, penso sempre che l’intelligenza, il pensiero razionale, è una tale struttura complessa e articolata che mi pare impossibile la sua riproposizione, sia nello spazio che nel tempo. Un unicum, in sostanza, che deve soltanto alla eccezionalità della concatenazione di circostanze che l’han reso possibile, il fatto d’esser venuto alla luce. Tuttavia, se effettuiamo una connessione fra questa considerazione e il ”creato nominale” di Benjamin (e assumendone la verosimiglianza), possiamo spingerci in una congettura pressoché trascendentale – noi che, per altro, abbiamo sempre sostenuto il fondamento linguistico dell’universo, à la Foucault- ma senza Dio, senza la potenza creazionale e divina del Verbo che nominando crea… Ebbene, anche immuni al sovrannaturale, potremmo pensare alla macchina del pensiero come a una cinepresa cogente che pensa, scrive e gira il proprio film.   
In tal caso, la physis sarebbe soltanto un’apparenza, una grandiosa illusione intesa a infatuare la percezione giudicante del peccatore caduto sotto l’albero della scienza, per indurlo a credere nell’abbaglio materialista di un creato che consta invece soltanto di nomi. Così. vedendo in realtà solo dei nomi, una realtà nominale, crederemmo invece di assistere allo spettacolo di una “natura naturata”, come dicevano gli antichi, in cui le cose siano cosalità assoluta (dal che il materialismo, fattispecie consumistico). E invece di credere allo spirito (almeno linguistico) di tale realtà ( e sia pure dicendo il contrario, come fanno certe religioni), se ne dubita fortemente, ritenendo che la materia sia più attendibile, in quanto percepita dai sensi, di qualunque altra “sostanza” con cui sostituirla. Un desolante materialismo ateo che viene proprio dalla fetta più proclive alla superstizione e ai vaneggiamenti idolatrici dell’umanità.  
Resta questo: se la natura è illusione e l’essenza del mondo è solo infinita scrittura di nomi, per me, per ciò che me ne viene, il Dio se ne può anche esistere da qualche parte, con le sue etimologie e i suoi glossari e le sue note a pié di pagina.

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