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Equazione

Ciò cui alludevamo nel precedente testo circa l’insorgere sull’orizzonte storico di un nuovo paradigma di Peccato Originale a seguito della tragica esperienza della Shoah, ci immette nella prospettiva di una equazione, le cui premesse sono per altro note: il sistema del capitalismo sta a quello nazista, come l’Illuminismo sta a De Sade. Questo accade perché, sul piano contenutistico, in ambo i casi  il primo termine non può escludere l’altro, finendo per accoglierlo nel proprio assetto simbolico come propria possibilità, sia pure e durevolmente tenuta a freno.
Ora, il problema verte proprio sul sistema frenante. Per secoli il freno inibitore trascendentale ha tenuto a bada con la modalità del timore di Dio, l’effrazione della porta del Super-io e lo sfocio in un violento scatenamento dei sensi in libertà. Per secoli, il monito della pena eterna a contropartita di una totale liberatoria dei sensi e della gioia “selvaggia” che essa concederebbe, ha imbrigliato le passioni più o meno occulte e innominabili, e le ha per lo meno ammansite e in parte relegate nel mondo onirico, nelle tenebre delle visioni da incubo, come nei quadri di Bosch. Ma questa ingenua rappresentazione del male, e questa sua restrizione pressoché pregiudiziale al territorio dell’allucinazione, o della negromanzia, non poteva sopravvivere all’impatto della scienza illuminista e del suo rapporto laico al sapere.
È così che quasi d’improvviso tutto il castello valoriale mitico viene a cadere. Tutto il sistema dei valori ancorato ai referenti mitico-religiosi, e tutto il suo apparato di punizioni e ricompense radicato appunto nel principio motore divino, dal quale esso discende, si scopre in un batter d’occhio disarmato, superato e inerme di fronte alla scienza “provata” del nascente sperimentalismo positivista dei fisici, così come dalla Scienza della logica dei filosofi. I quali, seppure, come fa Hegel, cerchino di coniugare la logica con la rivelazione cristiana, finiscono poi per innescare una specie di “tecnica” del pensare (non a caso uno dei suoi attributi è quello di "pensiero sistematico") che condurrà, come in Marx, immediato seguito di Hegel, all’abbattimento della metafisica e alla sua sostituzione con un analogo archetipo, il Socialismo, da un lato, ovvero alla disfatta totale dell’umanesimo, ossia al pessimismo (Schopenhauer) e al nichilismo (Nietzsche), dall’altro: posizioni che finiranno per apparentarsi storicamente con la Destra, e quindi con il Capitalismo. Queste due soluzioni sono, come sostiene il filosofo Emanuele Severino, identiche nella sostanza e ambedue destinate allo scacco storico, allo sbaraglio, al caos.
Ma qui ci interessa un’altra ripercussione evocata dal tema della laicità, della scienza e della logica.
Un correlato del pensiero illuminista è ben sintetizzato da ciò che Dostoevskij mette in bocca a Ivan Karamazov: Dio non c’è. Tutto è permesso. Una frase famosa. In sostanza: se l’entità morale che agisce da freno inibitore è tolta, nulla più impedisce il libero scatenamento dei desideri, delle libidini che cospirano nell’ombra, al disotto della soglia della coscienza. Dal che viene che l’onestà umana è contemperata soltanto dalla paura della punizione e che, sollevato dall’angoscia della stessa, qualsiasi essere umano è almeno in potenza soggetto alla libito del crimine, dell’eccesso, della violazione dell’ordine naturale. Così, quando il lungo percorso dell’autocoscienza viene a compiersi nell’Illuminismo, ed essa si libera del fardello mitico di una fede cieca e superstiziosa, non si avvede che convoglia nella sua liberazione anche il suo doppio dialettico. Ossia, nel suo processo di liberazione involge anche quello di oppressione, di riduzione in schiavitù, e cioè, di liberazione anche degli istinti sadici dal gravame della punizione.
E De Sade mette in scena proprio questa “parafrasi”, questa esegesi alla rovescia del principio del diritto della persona, capovolgendolo in un totale disconoscimento della stessa, trasformata soltanto in carne, sesso e sangue. Così come Dio è tolto, nell’Illuminismo “buono”, dal contesto dei rapporti sociali ed economici, introducendo il concetto dei diritti umani, De Sade lo toglie, lo svincola, lo discioglie dalla sua funzione giudicante, abolendo il peccato dal palcoscenico della sua folle concupiscenza. E ciò che non si rischiara immediatamente davanti alla coscienza onesta, è questo: che anche quello di De Sade è Illuminismo. È questo il “lato oscuro” che la dialettica illuminista trascina inconsapevolmente dietro di sé, come un rimorchio repellente colmo di scheletri e di putredine.  
Che lo si voglia o no, il sistema dei valori che sta alla base dell’Illuminismo, e che trapassa indolore nel capitalismo, è senza dèi, è ateo, non gli serve a niente una entità metafisica. L’unico vero “vitello d’oro” del capitalismo è il profitto e si predispone ad adorarlo senza remore, né ripensamenti. La sinderesi morale è abolita. Il bene e il male sono categorie inconseguenti ed estranee alle mire dell’arricchimento. L’unico comandamento è: vendere, non importa cosa e a chi.
Un grandioso sbandamento morale travolge l’Occidente. Da un lato, la speculazione critica s’impantana nel vicolo cieco del nichilismo; dall’altro, dal basso, monta invece un rancore acre e invelenito contro un dis-valore che, oltre a rendere miserabile l’esistenza di lavoratori alienati, infelici, rimpastati nel mucchio anonimo ed informe della gigantesca massa proletaria, gli strappa anche la consolazione dell’anelito trascendentale. Nessun Dio, nessun premio “aldilà” ripagherà la fatica e la disperata estraniazione del salariato. L’unica divinità ancora in vigore è il profitto, il plusvalore, che, come tale, non irrorerà mai col suo flusso dorato le classi subalterne.
Ma se Dio non c’è e tutto è permesso, non ci vuole niente che un qualche cialtrone malintenzionato non raccolga il frutto di quella nascente disperazione metropolitana, e non la cangi nel proprio strumento di profitto e di potere. L’idolo è la produzione; non importa come venderla e a chi. Basta metterla in funzione… Così, un bell’esemplare di ciarlataneria, o di avvoltoio, eccolo spuntare dalla flora maleodorante della reazione e mettersi a raccattare dalla spazzatura le macerie della fortuna altrui per convertirle nella edificazione della propria. La tecnica è semplice e praticabile. Correttamente specificata si dice: demagogia, e consiste in una sorta di doppio binario della intenzione e della propaganda. Quanto a quest’ultima, si appende al pregiudizio, quello più “facile”, più a buon mercato: soffiare nelle orecchie del popolino, oppresso dalla miseria e dall’indebitamento, il nome di un “colpevole”, quale che sia e presumibilmente, anche qui, quello più a buon mercato. Dargli ragione, al “volgo”, nelle sue pretese più infime e turpi. Suggerire che questa turpitudine si capovolga in santità, e che “Dio è con noi” nelle nostre peggiori acrimonie, nelle nostre fobie più oscure… L’altro binario, quello delle intenzioni, deve restare un sottotraccia appena percepibile, e siccome è ancora più capitalista del capitalismo, si rende necessario sconfessarlo ancor prima di annunciarlo. Si fonda così il senso di una battaglia di facciata anti-capitalista, contro le “plutocrazie democratiche” dominate dal “nemico” facile della propaganda: il giudaismo. Ma il vero finale è un culmine iper-capitalista: la rapina dell’universo-mondo, arraffarlo, estorcerlo, farsene padroni con un atto trasgressivo persino dinanzi al Dio. Ma non c’è problema: Dio non c’è,  tutto è permesso.
La trasgressione è uno dei postulati della struttura capitalista- che deve continuamente “superarsi”. Il “problema rivoluzionario” sta nel manico, cioè nel “prodotto” appunto trasgressivo da immettere sul mercato. E se il veicolo di questa escalation para-capitalista può essere il pregiudizio, perché non insufflare in una opinione pubblica già incrinata dalla crisi economica e dal rancore, il veleno di una supremazia razziale che proprio in grazia della sua propria eccellenza avrebbe suscitato l’invidia e quindi la reazione maligna degli altri?. Così il senso del malcontento viene rigirato in una interpretazione allucinatoria in cui l’unico colpevole additato è l’”ebreo errante”. Già, ma la superiorità della razza, presunta o no, non è un prodotto, è soltanto un annuncio. Non si vede, la superiorità della razza, e soprattutto non si vende… E allora il dittatore iper-capitalista e autocentrico il “prodotto” se lo rimugina nella sua fantasticheria di tenebra, fino al coup de théâtre finale: il prodotto sarà quello delle “fabbriche della morte”, sarà l’olocausto.
Sorgono così nei più disparati e ostili distretti europei i tristi Lager, cupe catene di montaggio alla rovescia, in cui il prodotto, essendo la sua propria morte, è franto, invece che creato.
E ci sventola su il vessillo dell’unica repubblica sadista-surrealista mai apparsa sulla faccia del mondo. Una repubblica di spettri che marciano sull’orlo dell’apocalisse, ma che, eziandio, illustra una possibilità, certamente la più raccapricciante, nascosta fra le carte dell’illuminismo e del mondo borghese che di lì scaturiva, e che resta ancora in gioco tra gli scheletri stanchi del Post-modern.
 
 

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