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liberaci dal male

Ieri mi lambiccavo il comprendonio sull’occorrenza di “liberarci dal male”, opzione disponibile ai piani alti dell’essere, considerando come male l’ottusità e il pregiudizio egemoni qui, ai piani bassi. Perché il male peggiore, da cui tutti gli altri derivano, è il pregiudizio quasi animale che ci contraddistingue. Ogni lotta, è lotta contro il pregiudizio; ogni efferatezza scende il linea retta da una qualche predisposizione, di origine fondamentalmente animale, che si cristallizza in odio verso ciò che da essa diverge- e ciò che diverge dalla passione, o pulsione, è la ragione. E ogni male è commesso contro quest’ultima, che se anche si vuol dire che sia Dio, resta comunque la prima e l’ultima istanza dell’essenza umana, ossia dell’umanesimo, e del Logos. 
Perciò chiedo (forse al vento, o alla voce sdrucciolevole dell’acqua, dentro la gola della montagna): chi pagherà il fio dell’immensa mole di scimunitaggine che suda dal mondo? Chi, quando, gliela farà pagare alla spocchia maggioritaria di questo mondo, sempre fermamente, graniticamente certa della bontà del proprio mitico preconcetto? Chi pagherà per tutto il male iniettato nell’essere dal suo più feroce, più recalcitrante, più indomabile nemico, cioè la banalità?
Il male è “scemo”. Tutto qui. Perciò i suoi adepti non possono che essere scimuniti come lui. Che so, i “satanisti”, gli Skinheads, i nazistoidi. Genie di mentecatti che scambiano le proprie frustrazioni per elezioni divino-diaboliche e si convincono di potenze notturne, valpurgiche, che sovrintendono alle loro disastrose goliardie… Molti giovani stupidotti vengono risucchiati nei gorghi maledettisti di tale mistica a rovescio, senza benché minimamente coglierne la fondamentale irrazionalità: il concetto di male, così come ci è dato, non coincide che con appunto il già-dato: credono di voler rivoluzionare l’esistente con l’esistente medesimo; il reale con un’accentuazione di realtà che non lo modifica di una virgola. Quella loro, è una sconfitta trascendentale di ciò che potremmo definire “l’intrascendibile”: l’assenza di un Dio venerata come un Dio stesso. Per come stanno le cose, non abbiamo bisogno di un Dio. Ma men che meno, abbiamo bisogno di inventare un Dio che ri-predica a pappagallo, e a mo’ di rivelazione, ciò che abbiamo ognidì sott’occhio. Il che è male. Come diceva Leopardi. “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male: che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; …”  Zibaldone pag. 4174  
Perciò, la ragione non può porsi altro che come bene, come antidoto della condizione iniziale: ciascuna cosa esiste per fin di male. Non si può “avere ragione” dalla parte del male, è impossibile. L’idea di trasgressione concerne soltanto la forma, la pelle sociale: si trasgredisce alla società, non alla realtà. Perché la società produce una propria confezione di bene che è tale per sé soltanto, e anzi solo per una sua piccola parte. Mentre è magari nocivo a tutti gli altri. È questo il per-bene cui casomai si trasgredisce. Ma non perché vi siano demoni più interessanti e splendenti degli dèi. Credere in Dio è forse naive, credere nel demonio è pura idiozia. Come può darsi un essere-per-il-male? Il male è la condizione primeva da cui l’essere tenta di strapparsi e si dà quindi ad esistere, entra in gioco, si fa verbo. L’essere sorge come ragione, Logos, e sorge apposta per opporsi al dogma della realtà: tutto è male. Se non c’è ragione, se non c’è bene, allora anche l’essere è tolto. Ma l’essere non si può abrogare, altrimenti non ci sarebbe nessuno ad abrogarlo. Quindi neanche il bene è revocabile, perché questo è inscindibile da quello. Il male e l’essere divergono irreparabilmente, poiché l’uno è il reale, l’altro il trascendentale; l’uno è vita semplice e incondizionata, l’altro è il logos, il verbo che afferra l’inerte e annuncia: questa cosa è.
 
Ci punge vaghezza che nessuno pagherà per l’immensa, nociva inferenza del pregiudizio sul corso del mondo. e che tutto finirà per convergere in una specie di collasso finale, una ecpirosi ove natura e cultura rotoleranno abbracciate nella fossa apocalittica e infuocata che per secoli avevano scavato.
Già, si dirà, ma cos’è il pregiudizio?
Il pre-giudizio sta nella a-critica del proprio oggetto: questo è giudicato prima ancora della sua determinazione logica, è “mangiato” e pre-digerito come qualcosa di dato assolutamente e senza ombre. Una icastica del giudizio incardinata su un realismo cocciuto e cristallizzato. Ora, noi sappiamo che la realtà non è “realistica”. Sappiamo che l’unica costante della realtà è la mutazione, che è in perenne metamorfosi e che lo stesso afferrarla, acquisirla, comprenderla, ne modifica la natura. Lo stesso strutturalismo ci insegna che la struttura della realtà non è che la “scatola” in cui la ingabbia il nostro pensiero: essa è una struttura assente (titolo, anche per questo, di uno dei primi testi di Umberto Eco). Con queste premesse, pur tuttavia, specialmente da giovani, ci lanciamo all’interno della realtà, animati dalle migliori intenzioni di conquistarla e aggiogarla ai nostri voleri. I giovani hanno bisogno della realtà, e han bisogno che sia proprio quella, indistruttibile e inconfondibile, perché altrimenti mette paura. Ecco dove s’acquatta il pregiudizio, in quella paura del non-sapere, paura della frangibilità e della precarietà di quelle categorie in cui, onde esorcizzarle, abbiamo ficcato le angosce e le incertezze della condizione umana. Senza accorgersi che infine non si tratta che di parole, semplici parole che tutte incollate assieme si organizzano nel discorso che è l’unico, autentico correlato dell’esperienza (Foucault).
Così, un ragazzo che vuole diventare calciatore, per esempio, sa che c’è il Calcio, i Club, gli Stadi, i Tifosi- tutte categorie che gli sono concesse gratuitamente, nel corso del suo sviluppo. È perciò piuttosto agguerrito nel mirare al suo ideale. Non pensa neanche alla lontana a una critica valoriale e magari antropologica dell’oggetto del suo amore: è lui stesso l’antropologia  che dovrebbe mettersi a studiare. E collateralmente non considera minimamente che sua maestà il Calcio può non esser nulla, solo il comportamento mitico-selvaggio dell’animale che rincorre la pallina, come il gattino in salotto. Lui “sa che c’è”: è lì il pregiudizio. L’esserci di qualcosa non è il granitico e immortale insediamento della realtà in una cosmologia definitiva. L’esserci non è che la categoria di base dell’essere, ossia del linguaggio, del verbo incarnato nel soggetto che giudica l’oggetto, del soggetto che è sempre io. Il Football che c’è, non è che “io che lo dico”.
Così, le categorie predeterminate che ci ficcano in capo quando ci insegnano un linguaggio, costellano la nostra coscienza di omeomerie, come i tasselli di un mosaico che va a configurare le basi del nostro sapere. L’autocoscienza sarebbe il sapere di questo sapere. Cioè, l’acquisizione critica del relativismo di questa struttura; la comprensione della stessa come un sistema organizzato, concepito per facilitare il nostro ingresso nel mondo, non per rinchiudere quest’ultimo in una gabbia dogmatica.
Ma il pregiudizio è tale che persino una abitudine palesemente ingiusta e pericolosa, come quella ad esempio del (mal)trattamento riservato dai nobili dell’Ancien régime al quarto Stato, finisce per solidificarsi in un’arrogante rivendicazione di supremazia e di elezione. Così, parimenti è pregiudizio quando chiunque rivendichi che la propria terra o addirittura la propria razza sia migliore di chicchessia. Non c’è questo “migliore”, perché fondamentalmente è incerto che qualcosa sia meglio di qualcos’altro, salvo non si tratti della mia vita, certamente e assolutamente preferibile al mio tramonto. Dal che si può trarre anche questo: che solo sulla vita, ovvero la morte, possiamo discettare evitando quel pregiudizio, perché sono queste le uniche categorie dell’essere che non possono essere categoricamente confutate. 
 
 
 
 

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