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Postilla a Roth

La “Pastorale americana” di Joseph Roth è una immersione epocale dentro il sogno, o impero, americano. Dai gloriosi anni ’50 / ’60, in cui il sogno si consolida, fino alla caduta degli anni quasi nostri, quando dalla culla del sogno si affonda nelle colluvie dell’incubo. Dico “quasi nostri” perché mi riferisco ai tempi corrispondenti del racconto, gli anni ’90; e lo dico perché proprio in quella loro qualità angosciosa ed onirica sono oggidì più coerenti e più compiuti di allora. 
Ciò che chiama in causa specialmente la nostra riflessione è la necessità di una spiegazione di questa discesa agli inferi di un mondo che, anche noi allora, consideravamo in progressione irreversibile verso una liberazione dell’essere, e non verso la sua eutanasia…
Il protagonista, lo “Svedese”, è colto in corsa precipitante, dagli albori esauditi del sogno americano, alla sua caduta. È grande, forte, biondo e che sia ebreo non conta nulla: fa parte delle minoranze americane che stanno lentamente diventando protagoniste del sogno. Giovane, ricco e vincente, sposa una miss e realizza tutto ciò che fantasticava.
La voragine improvvisamente spalancata sotto i suoi piedi è Merry, sua figlia. Questa passa dalla contestazione al terrorismo, per poi degradare ulteriormente in una “crisi mistica” assurda e abietta. Siamo chiamati dentro al suo dramma quando riflettendo e cercando in ogni meandro della sua memoria l’errore compiuto da porre alla base di tanta turpitudine, egli non trova altro che questa sensazione: che deve esserci per forza qualcosa di più, e di più profondo, a scatenare queste tenebre abissali. Perché è la stessa domanda che da tempi quasi immemori ci andiamo imponendo. Perché il cosiddetto benessere sfocia fatalmente nella putredine? Perché ciò che appare come “bene” al mondo imputridisce? Al di là della coscienza che pure abbiamo dei limiti di tale bene? Del falso-valore, del disvalore che esso esplicita? O è proprio perciò?
C’è come una specie di punto critico oltre il quale la società non sa più cosa promettere e i suoi adepti iniziano a coltivare una sorta di contro-desiderio, ove più che ripromettersi una qualche fortuna si incomincia a sperare da farla finita il più presto possibile. Così pare che le persone vogliano solo gettarsi via, magari armate di una qualche scusa formale, onde non ammettere il proprio nichilismo. Scrivevo qualche tempo fa, la nostra è l’epoca del post-nichilismo, intendendo dire che finché sopravvive un senso di disperata sfiducia verso la realtà, ebbene, in tale disperazione sopravvive il sentimento di appartenenza all’umanità: sono disperato perché non vedo il bene, dispero che ci si possa davvero emendare e cominciare a praticare il bene. Qui c’era ancora implicito un senso del bene che, sia pure disperatamente, cercava di affermarsi nel mondo. Ora, tale icona del bene è tolta dall’orizzonte del senso. Non c’è nessun bene, perseguito da chicchessia, che non coincida altro che con il proprio tornaconto. Come già avvistato da Aristotele, l’uomo si avvale del male per il proprio bene… La nostra epoca sta affondando nello stagno mefitico dell’interesse. Mors tua, vita mea, si traduce all’oggi letteralmente: se tu muori, io ci guadagno… È questo che corrode sotto sotto le fondamenta del globo terracqueo? O c’è di più, di più ancora?
Magari, potremmo arguire questo: il benessere non sana le ferite, e l’uomo, appunto, nasce ferito… sarà questo?! Forse, e direi: come al solito, bisognerà mettere insieme tutti questi numeri e cercare un responso da tale insieme e non da una sociologia raccattata e particolaristica. La nostra idea di società tende a un bene solo consumistico, ossia materiale, pragmatico, “real-politico”. Ma, ammonisce la filosofia (e la fisica), non solo non siamo fatti di sola carne, ma che non siamo “fatti” assolutamente. Soddisfare soltanto le pulsioni corporali è un nulla. Non è ciò che davvero l’uomo vuole. Qui il primo sostanziale errore della ermeneutica corrente. abbiamo sbagliato interpretazione: la vita non è “la” vita, è qualcos’altro. Sì, ma cosa?
Placare i bisogni non corrisponde al senso che cerchiamo di affibbiare all’essere. L’essere è altrove. Moltissimi anacoreti lo rintracciavano nell’attrappimento di tali bisogni, nella volontaria auto-esclusione dai beni, in virtù di una specie di esalazione trascendentale degli appetiti a integrale beneficio dei propri “spiriti”. Forse, probabilmente, erano solo degli esaltati che addomesticavano le proprie nevrosi attraverso un’opera di irreale auto-persuasione, un’auto-ipnosi da spalmare sulla disperazione onde volgerla nel proprio contrario. Noi, tuttavia, sappiamo questo: il loro verbo soprannaturale coincideva con la stessa natura trasumana del verbo: il linguaggio è uno stadio intermedio e noi siamo questa intermediazione, questa transizione, tra la condizione trascendentale della parola e quella intrascendibile e realistica della creazione. Detto altrimenti: l’essere è il lato trascendentale, alla Kant, di una nostra ineluttabile obbligazione nominale, legata ai fondamenti escatologici della nostra facoltà di pensare, mentre l’incarnazione di cui constiamo è il lato “realistico” ed esistenziale di ciò che i nostri sensi ci suggeriscono. E probabilmente, consegnare a quest’ultimo lato tutta la nostra devozione, è l’errore che cangia il bene delle nostre promesse in quella putredine che non possiamo, non riusciamo a, spiegarci.   
Il Bene, il benessere come società, come effetto benefico dell’azione sociale sul caos primario della natura, questa sicumera degli “effetti del buon governo” sul vivere associativo della fauna umana, non è che qualcosa di transitorio che, grazie alla concomitanza di fattori genericamente casuali, può instaurarsi in qualche luogo e in qualche tempo. Ma non dura. Non ci sono, né possono esistere presupposti fondativi e razionali in base ai quali la società sia strutturata per sempre e nel migliore dei mondi possibili. Ogni “massimo sistema” crolla prima o poi- possiamo addirittura dar ragione al cieco reazionarismo di Von Hayeck in ciò: non c’è regola al mondo che possa disciplinare i rapporti tra contraenti in modo univoco e definitivo. Nessuna norma può davvero “normalizzare” un accordo economico tra due parti. Quando trattate sul prezzo di un’anfora con un ceramista, ve lo figurate un funzionario statale lì presente con i formulari e le carte bollate? Il modello di base è questo e si riproduce anche nelle grandi transazioni. Quello che dobbiamo decidere è se è davvero l’interesse la molla del mondo… perché è questa l’illusione sulla cui base il nostro mondo si è via via concretato e che adesso si sgretola sulla faccia dell’abisso.  
Non lo sappiamo se “tutto è male Cioè tutto quello che è, è male: che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male”, né possiamo condividere integralmente l’idea freudiana del Tod Treiben, la pulsione di morte. Ma questo possiamo dire: che date le migliori condizioni, nella migliore, ricca e serena unità famigliare, nel più luminoso scorcio storico di benessere e di agiatezza, nell’ambito della più grande potenza democratica mai esistita, ecco che si insinua l’autodistruzione, o la decadenza, nella forma di una feroce autocritica che sfocia nella rabbia e nel terrore. La facile critica “di sinistra” a tale stato di cose è patetica: è perché quel benessere è ingiusto. Ahimè, qual mai benessere è stato frutto di giustizia? È ovvio che sia così: se tutti condividessimo il tenore di vita di una unità famigliare americana benestante degli anni ’60, il mondo sarebbe finito da un pezzo. Il nostro problema sprofonda nel cratere abissale dell’animo umano. È inutile abbandonarsi a facili interpretazioni socio-politiche, si tratta di una querelle del mondo come “io”, e non di una determinata dinamica storica, sociale o territoriale. È “io” che da qualche parte, all’indomani di una determinata “quiete” psicologica, economica, o persino democratica, tende alla resistenza e poi al bombardamento di tale “armonia”.  È all’interno di questa quiete che dobbiamo pestare col martello del discernimento.
Il primo colpo di martello cade sul sogno avverato: com’è, come succede, che sogno è? Per noi italiani, basterebbe ricordare. Ricordarci di un’Italia pezzente e a pezzi, all’uscita dal terribile “ossario” della guerra. Mezzo secolo fa, più o meno, l’Italia stremata e affamata in mezzo alle proprie rovine, risorse, si mise giù di buzzo buono a ricostruire una ipotesi di futuro sulle macerie del suo infausto passato. Si respirava una certa “gentilezza” in giro. Le persone uscite dal verminaio nazi-fascista  e dal massacro che ne era conseguito, si sentivano rinfrancate, da un lato, e innocenti di quella vergogna alle loro spalle. Ma erano anche animate da un senso di colpa che le esortava a emendarlo, quel ricordo, a far sì che i loro figli potessero permettersi ricordi meno atroci. La carica era positiva e il grandioso marchingegno della recente Repubblica avviò il passo della sua reincarnazione. Si inaugurava così la più imponente corsa al benessere che si fosse mai vista. Ma nella coscienza di quelle persone, tuttavia, non si trattava di questo. Il fine non era più primeggiare, rifondare imperi improbabili per magari “dominare il mondo”. Quelle persone cercavano soltanto quella quiete, appunto, che stiamo cercando di indagare. C’era fame di quiete, e questa si trasfuse nel benessere. E costituirono così, senza neanche saperlo, la più grande oasi di serenità e ricchezza che dall'unità d’Italia si fosse mai vista. È qui che si apre la crepa e che picchiamo la seconda martellata.
Ora, se escludiamo la fenomenologia “collaterale” di figure come quelle del governo Scelba, oppure del “mostro” Andreotti – elementi ben in grado di far soffiare sull’incendio di una sacrosanta contestazione più di uno sputafuoco marxista-leninista-, e ripercorriamo la vicenda, per esempio, delle Brigate Rosse, non  ci viene in mente la nullità, la supponenza, il ritardo culturale di una vicenda che pure costò così abbondanti sangue e lacrime? Ripensando oggi le Brigate Rosse, non si avverte una sorta di compassione per l’assurda scempiaggine che aveva fomentato tutta quella violenza e quel dolore? E non si percepisce il sentore di quel plus che stiamo cercando? Quella crepa nel mondo “normale” che finisce, proprio quando si calma, per gettarlo in nuovi incubi e in nuovi massacri. Il mondo è ingiusto, lo sappiamo, ma la rabbia che questa ingiustizia ci ispira, cos’è, non è ingiustizia tale e quale anche lei?.
Il cerchio si chiude qui, ritornando alla questione sollevata da Roth: il “manico” è la rabbia. L’uomo è un animale rabbioso. Se questa rabbia si sfoga, retrocedendo a stadi anteriori la civiltà, poi segue un senso di colpa, che può assumere contorni grandiosi, come dopo le grandi catastrofi belliche del ‘900. Ma non dura. Non c’è “pace perpetua”. La rabbia riaffiora dalle trachee insaziabili dell’inconscio, sempre assetato di sangue. Qualcosa che si può ravvisare anche in quelli che dovrebbero essere i rapporti amorosi, che dovrebbero assicurare continuità alle specie e che invece negli esseri umani s’impestano nella pura ingordigia, trasfigurandosi in chiave satanica, in “idillii” tra sadici e masochisti.
E così il “sesso e la violenza” che tanti film e libri esplicitano come una sorta di richiamo ancestrale, non fanno capo solamente a una esigenza “neo-realista” di spiattellare tutta la verità senza infingimenti o prouderie d’altri tempi, ma a quella fonte di verità più radicale dell’uomo da cui esse scaturiscono, cioè la rabbia. La rabbia borghese del soggetto alienato (dal lavoro, dalla famiglia, dal credo religioso) che cerca vendetta nella “libertà di fare quello che cazzo ci pare” (satira di qualche anno fa). Ove notevolissimo è l’aggettivo, non il sostantivo: rabbia borghese…
 
 

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