Scritto da © Hjeronimus - Lun, 24/02/2014 - 13:26
Termino la lettura di “Vite nuove”, di Ingo Schulze, che, brutto e interessante com’è, merita la spiegazione. La “vita nuova” particolare cui allude il titolo del libro, è quella di tale Enrico Türmer, che ne è in sostanza il vero autore: il “romanzo” della sua vita è costituito da un epistolario che lo scrittore Ingo Schulze ha raccolto e ordinato in una forma tale da configurare appunto il romanzo della vita di Türmer. Questi, per altro, è ossessionato, come testimonia la sorella Vera, da una urgenza di confessarsi che imprime alle sue missive, se non altro, una certa razionalità cronologica e narrativa che, come notavamo, concedono a tutta la ricostruzione di Schulze la coerenza necessaria del romanzo. Di un brutto romanzo, perché Türmer, e qui sta uno dei nodi del testo, non sa scrivere. E in più è volgare, vola assai basso per esempio su annotazioni oziose e del tutto superflue, di sue occorrenze organiche. Già, ma perché uno che non sa scrivere si sente apparentemente scrittore, al punto di imperniare sulla scrittura la propria vita e il proprio futuro?
È questo il tenore della questione messa in luce da Schulze. Lui stesso ci avverte del suo scetticismo circa la qualità letteraria del testo che ci propone e ci mette in guardia dalle relative pretese letterarie di Türmer (salvo tardivi ripensamenti). Ma la “cosa”, “Die Tatsache” direbbero i tedeschi, sta proprio nella vischiosità del tempo storico in cui il tutto è preso, un collante che tira assieme i destini incrociati delle due Germanie, poco avanti di fondersi nella riunificazione, con quelli personali di attori paradigmatici della Wende, la svolta della ritrovata unità, i quali finiscono per incarnare quelle “nuove vite”, gravemente compromesse da cinismo e avido individualismo, che albeggiano malinconicamente su quella unità ricomposta (e convertendone gli auspici in una sorta di reiterato peccato originale).
Perciò Türmer identifica inconsapevolmente la propria vocazione di scrittore con un’aspirazione tutt’altro che letteraria che lui tuttavia interpreta, dall’interno del cosmo oppressivo e repressivo del regime filo-sovietico, come trasgressiva e rivoluzionaria al deprimente conformismo socialista. E così dirotta sull’arte le “ambizioni sbagliate” che cova risentitamente contro le costruzioni, sbagliate altrettanto, del mondo in cui si muove. Egli identifica come arte i desiderata che gli pulsano in petto, proprio in rapporto inverso ai valori allineati al, e del, socialismo cosiddetto reale, equivocando come una sorta di opposizione culturale, il malessere che avverte in quel clima dispotico, e che gli deriva invece da un altro tipo di privazione della libertà. Difatti si sente scrittore solo fintanto che la DDR esiste. Non appena crollerà il muro, non sarà più tale. La libertà che Türmer invoca, e che crede coincidere con la libertà dell’arte, è invece quella di farsi gli affari suoi, di arricchire e di rendersi l’esistenza comoda, come avviene all’ovest.
In sostanza, e mi pare questo il messaggio di Schulze, Türmer non desidera altro che il rimpiazzo dei mali del suo mondo con quelli del nostro. Egli sguazza gaudente nella palude capitalista e solo finché la sua brama di ricchezza è impigliata e soffocata nelle maglie del socialismo reale, lui resta, ai suoi stessi occhi, uomo di cultura. Dopo, non ne rimane che un pallido simulacro, superato e divorato dalla “fame” cannibale che spira dall’ovest. Di soldi, mica di cultura.
L’uomo nuovo è dunque uno sciacallo assai più pervicace e mariuolo del precedente. Ed è comunque nient’altri che questo stesso, l’uomo di prima, che può finalmente dar libero corso agli istinti primari che covava nel proprio fondo, nell’impossibilità di manifestarli. E la rappresentazione fornita qui, nonostante la cattiva qualità letteraria, è esemplare: il nuovo genotipo che sorge dalle ceneri del socialismo reale non è che la fotocopia di quello vigente, di quello già noto. Un tipo bassamente venale che mutua i difetti del “mondo nuovo” che gli si affaccia, sovrapponendoli a quelli caduti in prescrizione. Ossia, come dicevamo, sovrapponendo male al male.
E con un appunto sulla riflessione critica: siamo proprio sicuri di quale fosse il male minore e il migliore dei mondi possibili, tra est e ovest?
È questo il tenore della questione messa in luce da Schulze. Lui stesso ci avverte del suo scetticismo circa la qualità letteraria del testo che ci propone e ci mette in guardia dalle relative pretese letterarie di Türmer (salvo tardivi ripensamenti). Ma la “cosa”, “Die Tatsache” direbbero i tedeschi, sta proprio nella vischiosità del tempo storico in cui il tutto è preso, un collante che tira assieme i destini incrociati delle due Germanie, poco avanti di fondersi nella riunificazione, con quelli personali di attori paradigmatici della Wende, la svolta della ritrovata unità, i quali finiscono per incarnare quelle “nuove vite”, gravemente compromesse da cinismo e avido individualismo, che albeggiano malinconicamente su quella unità ricomposta (e convertendone gli auspici in una sorta di reiterato peccato originale).
Perciò Türmer identifica inconsapevolmente la propria vocazione di scrittore con un’aspirazione tutt’altro che letteraria che lui tuttavia interpreta, dall’interno del cosmo oppressivo e repressivo del regime filo-sovietico, come trasgressiva e rivoluzionaria al deprimente conformismo socialista. E così dirotta sull’arte le “ambizioni sbagliate” che cova risentitamente contro le costruzioni, sbagliate altrettanto, del mondo in cui si muove. Egli identifica come arte i desiderata che gli pulsano in petto, proprio in rapporto inverso ai valori allineati al, e del, socialismo cosiddetto reale, equivocando come una sorta di opposizione culturale, il malessere che avverte in quel clima dispotico, e che gli deriva invece da un altro tipo di privazione della libertà. Difatti si sente scrittore solo fintanto che la DDR esiste. Non appena crollerà il muro, non sarà più tale. La libertà che Türmer invoca, e che crede coincidere con la libertà dell’arte, è invece quella di farsi gli affari suoi, di arricchire e di rendersi l’esistenza comoda, come avviene all’ovest.
In sostanza, e mi pare questo il messaggio di Schulze, Türmer non desidera altro che il rimpiazzo dei mali del suo mondo con quelli del nostro. Egli sguazza gaudente nella palude capitalista e solo finché la sua brama di ricchezza è impigliata e soffocata nelle maglie del socialismo reale, lui resta, ai suoi stessi occhi, uomo di cultura. Dopo, non ne rimane che un pallido simulacro, superato e divorato dalla “fame” cannibale che spira dall’ovest. Di soldi, mica di cultura.
L’uomo nuovo è dunque uno sciacallo assai più pervicace e mariuolo del precedente. Ed è comunque nient’altri che questo stesso, l’uomo di prima, che può finalmente dar libero corso agli istinti primari che covava nel proprio fondo, nell’impossibilità di manifestarli. E la rappresentazione fornita qui, nonostante la cattiva qualità letteraria, è esemplare: il nuovo genotipo che sorge dalle ceneri del socialismo reale non è che la fotocopia di quello vigente, di quello già noto. Un tipo bassamente venale che mutua i difetti del “mondo nuovo” che gli si affaccia, sovrapponendoli a quelli caduti in prescrizione. Ossia, come dicevamo, sovrapponendo male al male.
E con un appunto sulla riflessione critica: siamo proprio sicuri di quale fosse il male minore e il migliore dei mondi possibili, tra est e ovest?
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