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uguali

Giorni uguali. E il termine “uguale” sta per pessimismo, indifferenza, passività. L’uguale è il melanconico dell’accezione medica, ossia l’ignavo, l’accidioso, l’alienato. La tanto sbandierata uguaglianza non è che il trait d’union che ci accomuna tutti quanti in una infinita catena di ripetizioni, come cloni rugginosi che s’illudono di risplendere…
La techné, la tecnica, la tecnologia, come pure abbiamo già mille volte rimarcato, non è, non sarebbe, che la figlia minore dell’essere, del Logos. Eppure, per un’assurda convenzione della modernità, abbiamo voluto conferirle l’aureola di un primato tale sull’essere, che essa lo ha soverchiato e surclassato e infine detronizzato. Di modo che al presente essa occupa integralmente lo spazio metafisico e in luogo dello spirito abbiamo il mercato (il denaro al posto di Dio). E a chi è ateo, questo panorama è ancora più deludente, perché, pur restando necessariamente dentro al recinto dell’astrazione e del paradosso dell’esistere, nega l’utopia e si colloca piuttosto in una grigia area di raziocinio glaciale, come dentro un iceberg fatto di freddo e di burocrazia. La techné abbatte tutto: la fantasia, l’immaginario, l’arte, la gioventù, il desiderio. Ne scaturisce una orologeria sociale a encefalogramma piatto, ove non accade più nulla ai soggetti clonati che la popolano, se non ciò che, pur non essendo “accadere” vero e proprio, viene scandito una volta per tutti e per tutte. Come si pigiasse un on e tac!, si esce sulla vita, e poi a ogni successiva pressione seguissero scatti automatici e anti-storici, per dire così, ossia sottratti al criterio della necessità storica previa la ripetizione. E così avanti, fino all’off finale dell’uscita di scena. Fino ad una morte, prevista, presentita, prescritta, come da regolamento. Ahimè…
Il destinatario tipico di questo vivere per la morte decretato dalla signoria del soldo affiliato alla techné, è la massa. E la massa, l'ho già detto altrimenti e lo ri-affermo, non è un mucchio indistinto passibile di discriminazioni razziste ed inique, bensì il mucchio indistinto in cui la pseudo-civiltà technè ci ha spinto dentro, trasformandoci in una mandria di cerberi ottusi emarginati e feroci. 
E insaziabili. Di modo che, mentre “l’immonda società” si precipita a divorare e a consumare fin l’ultimo granello di mondo, di “mondità”  ancora intemerata di Madre-natura, ecco che innalza, atterrita lei stessa dal proprio cannibalismo, i propri lai speranzosi ed invasati, non al Dio, bensì alla fantascienza, come fosse questa la soluzione della dissoluzione che ha innescato. 
Ecco perciò profilarsi l’uguaglianza come fine, come logico tragico ineluttabile epilogo di un consesso creaturale-metafisico che a un certo punto del proprio viaggio ha ritenuto un vantaggio far retrocedere il proprio ingegno dalle vertigini dell’utopia alla prassi pietrificata, quasi “fantozzesca”, di una geometria estenuante, avara e pidocchiosa, salvo poi negarsi persino in quella sua promessa meschina e senza catarsi del “premio” che non riesce più a concedere, il lavoro. Eccoci qui dunque bastonati, uguali e disoccupati a sognare le macchine rosse che non avremo, le donne bellissime che non ci sorrideranno mai e le regge che alcuni, pochissimi, avranno rubato ad altri- senza ottenere nulla e, se anche mai accaparrandoci qualcosa, costatando che era nulla anche quello…
 

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