Scritto da © Hjeronimus - Mer, 03/12/2014 - 13:57
È possibile pensare un “sempre” all’interno della condizione umana?
Per il termine “sempre” vale la definizione che Aristotele escogitò per l’altro termine “infinito”: l’infinito è ciò che non si può percorrere, né avanti, né indietro. Noi possiamo, oggidì e per fortuna, giocare qualche carta in più, rispetto ad Aristotele. Una carta messaci a disposizione dalla fisica moderna. Questa ci ragguaglia circa la modalità dimensionale del tempo, che la fisica difatti chiama “spazio-tempo”, senza distinzione fra i due, e conseguenzialmente anche fra i loro massimi, il sempre e l’infinito.
Ora, noi siamo fatti di tempo, è ovvio. Siamo una durata, una storia con inizio, svolgimento e fine. E siamo una storia tragica, perché appunto ineluttabilmente votata ad una fine, dal che la cultura. Ma se siamo questa durata che si articola nella dimensione spazio-temporale, è almeno lecito tentare di collocare questa “storia” in un qualche dove, in un contesto che giustifichi la sua struttura dimensionale. Facendo ricorso ad una dimensione che è “sotto” quella temporale della nostra esperienza, possiamo forse semplificare il concetto. Un oggetto, una massa, un volume, necessariamente occupano uno spazio, quindi diremo: il bicchiere è sul tavolo, il tavolo nella casa, che si trova in una regione della Terra, che gira in orbita intorno al sole, nel concavo universo conosciuto. Se ogni cosa sta in un’altra, nella tri-dimensione, là essa resta se nessun moto interviene. Dovremmo pensare uguale per un corpo nello spazio-tempo: là è e là resta. Solo che tale unità non si misura in centimetri, ma in attimi, in unici attimi in cui si vive.
Il sempre è l’attimo. E l’infinito è ciò che non dura, perché tutto quello che prevede una durata, necessariamente implica anche una fine. Ma l’attimo non può morire. Per noi “passa”, ma per lo spazio-tempo esso sta. Ecco dove si è andato a ficcare il sempre e il suo segreto.
Noi, fatti di tempo, dobbiamo fatalmente finire, ma nell’atto del morire si verifica una uscita dal tempo che necessariamente ci raccorda al principio infinito, mentre tutta la vita restata indietro, da qualche parte, continua a esistere come una specie di ansa nel fiume del tempo, che non possiamo ricreare, è evidente, ma neanche rinnegare. Perché non sappiamo “dentro cosa” si trovi l’ultima, estrema istanza del nostro vedere, del nostro sapere, che è appunto lo spazio-tempo. Un’immensa scatola trasparente di cui non è dato neanche concepire su “cosa” poggi (non per niente gli antichi credevano nel mito di Atlante, che reggeva il creato sulla sue spalle). Mentre ci è consentito congetturare su tale “essenza” esterna al cosmo, fino a potercela figurare come Dio. Dio è l’altrove. E magari neanche è Dio, ma, chissà, un giardino fiorito, con molte pesche e qualche farfalla…
Per il termine “sempre” vale la definizione che Aristotele escogitò per l’altro termine “infinito”: l’infinito è ciò che non si può percorrere, né avanti, né indietro. Noi possiamo, oggidì e per fortuna, giocare qualche carta in più, rispetto ad Aristotele. Una carta messaci a disposizione dalla fisica moderna. Questa ci ragguaglia circa la modalità dimensionale del tempo, che la fisica difatti chiama “spazio-tempo”, senza distinzione fra i due, e conseguenzialmente anche fra i loro massimi, il sempre e l’infinito.
Ora, noi siamo fatti di tempo, è ovvio. Siamo una durata, una storia con inizio, svolgimento e fine. E siamo una storia tragica, perché appunto ineluttabilmente votata ad una fine, dal che la cultura. Ma se siamo questa durata che si articola nella dimensione spazio-temporale, è almeno lecito tentare di collocare questa “storia” in un qualche dove, in un contesto che giustifichi la sua struttura dimensionale. Facendo ricorso ad una dimensione che è “sotto” quella temporale della nostra esperienza, possiamo forse semplificare il concetto. Un oggetto, una massa, un volume, necessariamente occupano uno spazio, quindi diremo: il bicchiere è sul tavolo, il tavolo nella casa, che si trova in una regione della Terra, che gira in orbita intorno al sole, nel concavo universo conosciuto. Se ogni cosa sta in un’altra, nella tri-dimensione, là essa resta se nessun moto interviene. Dovremmo pensare uguale per un corpo nello spazio-tempo: là è e là resta. Solo che tale unità non si misura in centimetri, ma in attimi, in unici attimi in cui si vive.
Il sempre è l’attimo. E l’infinito è ciò che non dura, perché tutto quello che prevede una durata, necessariamente implica anche una fine. Ma l’attimo non può morire. Per noi “passa”, ma per lo spazio-tempo esso sta. Ecco dove si è andato a ficcare il sempre e il suo segreto.
Noi, fatti di tempo, dobbiamo fatalmente finire, ma nell’atto del morire si verifica una uscita dal tempo che necessariamente ci raccorda al principio infinito, mentre tutta la vita restata indietro, da qualche parte, continua a esistere come una specie di ansa nel fiume del tempo, che non possiamo ricreare, è evidente, ma neanche rinnegare. Perché non sappiamo “dentro cosa” si trovi l’ultima, estrema istanza del nostro vedere, del nostro sapere, che è appunto lo spazio-tempo. Un’immensa scatola trasparente di cui non è dato neanche concepire su “cosa” poggi (non per niente gli antichi credevano nel mito di Atlante, che reggeva il creato sulla sue spalle). Mentre ci è consentito congetturare su tale “essenza” esterna al cosmo, fino a potercela figurare come Dio. Dio è l’altrove. E magari neanche è Dio, ma, chissà, un giardino fiorito, con molte pesche e qualche farfalla…
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